ANGELA CARTER
LE INFERNALI MACCHINE DEL DESIDERIO
(The Infernal Desire Machines Of Doctor Hoffman, 1972)
Alla mia famiglia, dovunque si trovi,
compreso a malincuore Ivan,
che si credeva Aliosha.
Les lois de nos désirs sont les dés sans loisir.
Robert Desnos
(Si tenga presente che a volte esigiamo delle definizioni non in virtù del contenuto, ma della forma. La nostra esigenza è di ordine architettonico: la definizione è una sorta di cornice ornamentale, che non sostiene nulla.)
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche
Immaginatevi la perplessità di un uomo al di fuori del tempo e dello spazio, che ha smarrito l'orologio, il metro e il diapason.
Alfred Jarry, Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico
INTRODUZIONE
Io ricordo tutto.
Sì.
Ricordo tutto perfettamente.
Durante la guerra, la città era popolata di miraggi e io ero giovane. Ma oggigiorno regna la pace più assoluta. Le ombre cadono soltanto come e quando ci si aspetta che cadano. Poiché sono tanto vecchio e famoso, mi hanno chiesto di mettere per iscritto tutti i miei ricordi della Grande Guerra, visto che, dopo tutto, io ricordo ogni cosa. Quindi devo raccogliere tutta quella congerie di esperienze e ordinarla in modo da poter cominciare dal principio, così come accadde. Devo sfilare la mia vita come se fosse un lavoro a maglia e individuare in quella matassa aggrovigliata il bandolo dell'Io di un tempo, di quel giovane che divenne per caso un eroe e poi diventò vecchio. Per prima cosa, lasciate che mi presenti.
Mi chiamo Desiderio.
Vivevo nella città quando il nostro avversario, il diabolico dottor Hoffman, la riempì di miraggi per farci impazzire tutti. Nella città nulla era ciò che sembrava: assolutamente nulla! Perché il dottor Hoffman, vedete, stava sferrando una massiccia campagna contro la ragione umana. Niente di meno. Oh, la posta in gioco nella guerra era molto alta: più alta di quanto credessi, perché ero giovane e cinico e in ogni caso non amavo molto il concetto di umanità, anche se in seguito, quando divenni un eroe, mi dissero che avevo salvato il genere umano.
Ma da giovane non volevo essere un eroe. E al tempo in cui vivevo in quella città sconcertante, nei primi giorni della guerra, la vita stessa era diventata nient'altro che un labirinto inestricabile e tutto ciò che aveva una possibilità di esistere, esisteva. E una tale complessità - una complessità così ricca che a stento si riesce a esprimerla a parole - tutta quella complessità... mi annoiava.
In quei tempi tumultuosi e cinetici, l'epoca del desiderio divenuto realtà, per quel che mi riguardava mi auguravo una sola cosa. Ed era che tutto finisse.
Diventai un eroe solo perché sopravvissi, in quanto non potevo arrendermi al continuo trasmutare dei miraggi. Non potevo fondermi e identificarmi con essi; non potevo rinnegare la mia realtà e perdere per sempre me stesso come fecero altri, ridotti all'annullamento dalla crudele artiglieria dell'irrazionale. Ero troppo cinico. Ero troppo insoddisfatto.
Da giovane, ammiravo moltissimo gli antichi egizi, perché avevano cercato e perfezionato una posa del tutto soddisfacente sul piano estetico. Dopo che tutti, dal primo all'ultimo, avevano perfezionato la posizione universalmente approvata - profilo rivolto da una parte, torso dall'altra, piedi in direzione opposta all'osservatore, ombelico perfettamente frontale - l'avevano conservata per duemila anni. Io ero il segretario particolare del ministro della Determinazione, che voleva riportare ad atteggiamenti di assoluta correttezza quell'autentico serraglio di mostri che la città era diventata; e avevo questo in comune con lui: un'ammirazione per la staticità. Ma, a differenza del ministro, non credevo che la staticità fosse raggiungibile. Ero convinto che la perfezione fosse, per sua stessa natura, impossibile, e quindi i fantasmi più allettanti non potevano sedurmi, perché sapevo che non erano veri. Anche se, naturalmente, nulla di ciò che vedevo era più se stesso, ormai. Vedevo solo riflessi dentro specchi in frantumi. Il che era perfettamente naturale, perché tutti gli specchi erano stati frantumati.
Il ministro mandava di ronda la polizia di Determinazione a distruggere tutti gli specchi a causa delle immagini fuorilegge che disseminavano. Dal momento che gli specchi offrono delle alternative, si erano trasformati tutti in fessure o spiragli aperti nel mondo della realtà, compatto fino a quel momento, e dalle fessure s'insinuava subdolamente ogni sorta di spettri amorfi. E questi spettri erano i guerrieri del dottor Hoffman, soldati mimetizzati che, sebbene del tutto irreali, esistevano lo stesso.
Noi facemmo del nostro meglio per tenere fuori ciò che era fuori, e dentro ciò che era dentro; costruimmo intorno alla città un'enorme barriera di filo spinato, per mettere in quarantena l'irreale, ma ben presto la barriera fu costellata dei cadaveri in decomposizione di coloro che, vedendosi rifiutare il permesso di uscita dalla zelante polizia di Determinazione, dimostravano la loro realtà morendo infilzati sul filo spinato. Ma se la città era in stato d'assedio, il nemico era all'interno delle barricate, e viveva nella mente di ognuno di noi.
Eppure io sopravvissi, perché sapevo che certe cose erano necessariamente impossibili. Non prestai fede quando vidi lo spettro della mia defunta madre stringere fra le mani il rosario e gemere avvolta nel lenzuolo che le era stato offerto dal convento dov'era morta cercando di espiare i suoi peccati. Non prestai fede quando gli agenti del dottor Hoffman sostituirono per scherzo nomi diversi da Desiderio sulla targa fuori della porta: nomi come Wolfgang Amadeus Mozart e Andrew Marvell, giacché sceglievano sempre i nomi dei miei eroi, tutti uomini dal genio originale e raffinato. E sapevo che dovevano scherzare, perché chiunque poteva vedere che come uomo io somigliavo piuttosto a un letto sfatto. Ma, quanto al ministro, lui era Milton o Lenin, Beethoven o Michelangelo: non un uomo bensì un teorema, chiaro, solido, coerente e armonioso. Lo ammiravo. Mi faceva pensare a un quartetto d'archi. Ed era del tutto immune anche lui al barocco fall-out dell'effetto Hoffman, sia pure per ragioni diverse dalle mie.
E io, per quale ragione ero immune? Perché, a causa del mio scontento, mi creavo da solo delle definizioni, e queste definizioni corrispondevano guarda caso a quelle che si rivelarono vere. E così compii un viaggio attraverso lo spazio e il tempo, risalendo il corso di un fiume, superando una montagna, navigando sul mare, attraversando una foresta. Finché giunsi a un certo castello. E...
Ma non devo anticipare i tempi. Descriverò la guerra esattamente come si è svolta. Comincerò dall'inizio e continuerò fino alla fine. Dovrò mettere per iscritto tutti i miei ricordi, a dispetto del dolore quasi intollerabile che provo quando penso a lei, l'eroina della mia storia, la figlia del mago, la donna ineffabile al cui ricordo sono dedicate queste pagine... la prodigiosa Albertina.
Se mai ho creduto che nel mio involucro rognoso esista qualcosa di trascendente che possa sopravvivere alla morte che mi coglierà certamente fra qualche mese, dovrei essere felice, giacché potrei illudermi di essere riunito alla mia diletta. E se Albertina è diventata ormai per me una donna quale solo la memoria e l'immaginazione possono concepire, ebbene, almeno in parte accade sempre così con la persona amata. Io la vedo come una serie di forme mirabili create a caso nel caleidoscopio del desiderio. Oh, era figlia di suo padre, su questo non c'è dubbio! Dunque devo consacrare questo resoconto della guerra contro il padre alla memoria della figlia.
Albertina chiuse quegli occhi che erano per me le fonti inesauribili della passione cinquant'anni fa, in questo stesso giorno, e quindi prendo la penna in mano nel cinquantenario della sua morte, come ho sempre avuto intenzione di fare. Dopo tutti questi anni, le vesti del mio spirito sono lacere e per metà strappate dai venti della fortuna che ha fatto di me un politico. E a volte, quando ripenso al mio viaggio, non solo mi sembra che sia accaduto tutto in un solo istante, in una sorta di fuga musicale di esperienze, proprio come l'avrebbe congegnata suo padre, ma tutto nella mia vita mi pare di uguale valore, cosicché la rosa che si spogliò dei petali, quasi rabbrividendo d'estasi nell'udire la sua voce, proietta un'ombra altrettanto lunga delle parole straordinarie che lei pronunciò.
Ciò non equivale affatto a dire che la mia memoria abbia dissolto tutto nel solvente di Albertina. Piuttosto che, dalla tomba, il padre ha ottenuto una vittoria tattica su di me e mi ha imposto se non altro la percezione di un mondo alternativo in cui tutti gli oggetti sono emanazioni di un unico desiderio. E il mio desiderio è rivedere Albertina prima di morire.
Ma nella metafisica partita a scacchi che lui e io abbiamo giocato, ho mangiato la regina del padre e dato scacco matto a tutti e due perché, sebbene sia consumato fino al midollo da questo desiderio, esso è tanto impotente quanto disperato. Il mio desiderio non potrà mai essere esaudito, e chi può saperlo meglio di me?
Poiché sono stato io a ucciderla.
Ma non dovete aspettarvi una storia d'amore o una storia di delitti. Aspettatevi un racconto di avventure picaresche o addirittura eroiche, perché ai miei tempi sono stato un grande eroe, anche se ormai sono soltanto un vecchio, non più l'"io" del racconto, e il mio tempo è passato, per quanto possiate leggere di me nei libri di storia... strano destino per un uomo ancora in vita. Lo trasforma nella prostituta della posterità. E quando avrò completato la mia autobiografia, il lenocinio sarà completo. Resterò per sempre piantato saldamente nel tempo di ieri, come una statua commemorativa di me stesso su una pubblica piazza, serena, equestre, sopra un piedistallo. Anche se sono così vecchio e triste ormai e, senza di lei, condannato a esistere in un mondo spento e privo di colore, come se vivessi in un dagherrotipo sbiadito. Pertanto
IO, DESIDERIO, DEDICO LE MIE MEMORIE
A
ALBERTINA HOFFMAN
CON LE MIE LACRIME INESAURIBILI
CAPITOLO 1
La città assediata
Non riesco a ricordare esattamente in che modo cominciò. Nessuno, nemmeno il ministro, riusciva a ricordarlo. Ma so che cominciò quando la mia spaventosa infanzia era misericordiosamente finita da tempo. Le suore che avevano seppellito mia madre mi avevano sistemato con una sinecura: avevo un piccolo impiego in un ufficio governativo. Abitavo in una stanza d'affitto con un letto e un tavolo, una sedia e un fornelletto a gas, una credenza e una caffettiera. La padrona di casa era relativamente giovane e molto accomodante. Ero sempre un po' annoiato, ma del tutto soddisfatto. Pure, penso di essere stato uno dei primi in città a notare che le ombre cominciavano a mostrare una sottile distorsione, e una curiosa stranezza pervadeva ogni cosa. Avevo tempo per vedere, tutto qui. E il dottore cominciò le sue attività molto in sordina. Lo zucchero a volte aveva un gusto un po' salato. Una porta che era sempre stata blu cambiava colore per stadi quasi impercettibili finché, tutt'a un tratto, era una porta verde.
Ma se frutti singolari, come ananas che avevano il colore e la consistenza delle fragole o noci che sapevano di caramello, cominciavano a comparire fra le mele e le arance sulle bancarelle del mercato, tutti lo attribuivano alle nostre crescenti importazioni, perché l'economia aveva conosciuto una rapida espansione da quando l'uomo che in seguito divenne ministro della Determinazione aveva assunto l'incarico di ministro del Commercio. Era sempre un modello di efficienza. Io avevo l'incarico di archiviare le pratiche nella sede del ministero del Commercio. Dopo di che, aiutavo il ministro a risolvere cruciverba, e questo passatempo comune generò un'intimità spuria che rese la mia carriera parallela alla sua. Lui ammirava la rapidità e l'indifferenza con la quale lo guidavo su e giù per l'insidiosa scacchiera nera e bianca, e non credo si sia mai accorto che la rapidità era frutto soltanto dell'indifferenza.
Com'era la città prima di cambiare? Pareva che non dovesse mutare mai.
Era una città solida, anonima, tuttavia non ostile. Si arricchiva con il commercio. Era prospera. Era grossolanamente, ottusamente mascolina. Certe città sono donne e vanno amate; altre sono uomini e si possono soltanto ammirare o considerare soci in affari, e la mia città se ne stava ben salda nelle sue brache di sargia, come su una poltrona di cuoio. Aveva le tasche gonfie di soldi e la pancia piena di cibo sostanzioso. Storicamente, aveva percorso un cammino tortuoso per arrivare a una così compiaciuta, impenetrabile, borghese agiatezza; aveva esordito come mercante di schiavi, ruffiano, trafficante d'armi, assassino e pirata, furfante ribaldo, feccia d'Europa in esilio... e guardatelo ora, come spadroneggiava! La città era costruita su un fiume soggetto alle maree e i quartieri poveri e l'area intorno ai dock pullulavano ancora di negri, mulatti e orientali immersi in un pittoresco squallore che i padri della città, dalle loro verande dei sobborghi, riuscivano a ignorare. Eppure la città ormai era ricca, per quanto brutta; ma era lo stesso un po' nervosa. Si azzardava soltanto di rado a darsi una sbirciatina indietro, da sopra la spalla ben imbottita, nel tentativo di scrutare le gialle montagne che sorgevano minacciose lontano, a nord, atavico memento dell'interno di un continente che incuteva un terrore indicibile a coloro che vi erano giunti da poco tempo. Era vietato pronunciare la parola "indigeno". Eppure, alcuni edifici risalenti al periodo coloniale erano imponenti: la cattedrale, il teatro dell'Opera; monumenti di pietra a un passato al quale ben pochi di noi avevano contribuito, anche se io, essendo di origine indiana, soffrivo dell'ironica convinzione che i miei progenitori avessero consacrato le fondamenta dello stato con una buona dose del loro sangue.
Ero di origine indiana. Sì. Mia madre proveniva da un ceppo imbelle di immigrati mitteleuropei e la sua attività, ossia la prostituzione del livello meno elevato, la conduceva spesso negli slum. Chi fosse mio padre non so, ma porto sul volto la sua impronta genetica, benché i colleghi abbiano sempre finto cortesemente di ignorarla da quando le pie monache bianche avevano garantito per me. Tuttavia ero un giovanotto molto disincantato, perché non ero certo ignaro della mia mancanza di retaggio.
Quando avevo denaro sufficiente andavo all'Opera, perché ero molto attirato dalla stilizzazione stereotipata del melodramma. Mi piaceva soprattutto Il flauto magico. Durante una certa rappresentazione del Flauto magico,una sera del mese di maggio, mentre ero seduto in galleria a subire la divina illusione di perfezione che Mozart m'imponeva e con la quale m'intossicavo, poiché non riuscivo a dimenticare che era falsa, il mio sguardo fu attirato da un curioso luccichio verdastro nei palchi sotto di me. Mi protesi in avanti. Papageno fece tintinnare le campanelle e in quel preciso istante, come se la causa fossero state le campanelle, vidi che l'auditorio era pieno di pavoni che facevano la ruota e cominciarono ben presto a schiamazzare con voci stridule in modo insopportabile, soffocando del tutto la musica al punto che mi sentii subito annoiato e irritato. La mia prima reazione al delirio incipiente fu la noia. Guardandomi attorno, vidi che tutti nella galleria portavano un cappuccio aderente color verde pavone e che dietro ogni spettatore si agitava un ventaglio iridescente di piume. Non so ancora con certezza per quale motivo non mi battei subito la mano sul posteriore per vedere se anch'io ero così bardato: forse sapevo che i limiti della mia sensibilità impedivano assolutamente che mi accadesse una cosa del genere, dato che ammiravo molto la bellezza dei pavoni. Tutt'intorno a me cominciava a manifestarsi un panico notevole; i pavoni stridevano e si agitavano come arcobaleni spiegazzati e ben presto fu calato il sipario, dato che la rappresentazione non poteva proseguire in quelle condizioni. Fu il primo colpo di scena del dottor Hoffman. Così me ne tornai a casa deluso, defraudato del mio Mozart, e la mattina seguente il bombardamento cominciò sul serio.
Non comprendemmo con quali mezzi il dottore modificava la natura della realtà se non molto tempo dopo. Fummo colti completamente di sorpresa e il caos sopravvenne subito. Le allucinazioni sbocciavano in ogni cervello con rapidità prodigiosa. Venne proclamato lo stato d'emergenza. Una speciale riunione di gabinetto ebbe luogo in un piccolo battello su un mare così tempestoso che gran parte dei ministri vomitò per tutta la seduta e il Cancelliere dello Scacchiere fu scagliato fuori bordo da un'onda. Il mio ministro osò camminare sulle acque e recuperò il collega anziano asciutto come un'esca, dato che in realtà non c'era una sola goccia d'acqua; dopo di che, il consiglio dei ministri gli conferì piena autorità per fronteggiare la situazione, e ben presto lui si ritrovò a governare la città senza colpo ferire.
Ora, ciò che il dottor Hoffman aveva fatto, in primo luogo, era questo. Considerate la natura di una città. È un immenso deposito di tempo, il tempo scartato da tutti gli uomini e le donne che hanno vissuto, lavorato e sognato e che sono morti nelle strade, le quali crescono come un essere organico dotato di volontà, si schiudono come i petali di una rosa affondata nel fango e tuttavia mancano così totalmente di evanescenza da preservare il passato a strati casuali, così che questo vicolo è antico mentre il viale che gli corre accanto è di costruzione recente, ma ciò nonostante è stato costruito sulle reliquie sprofondate e interrate del più vecchio, forse dell'originale, intrico di vicoli che ha dato origine all'intero quartiere. I giganteschi generatori del dottor Hoffman sprigionavano una serie di vibrazioni sismiche che provocavano grandi fratture nella superficie - fino a quel momento immutabile - dell'equazione fra tempo e spazio che avevamo formulato in modo empirico per realizzare la nostra città e da queste fratture, ebbene... nessuno sapeva cosa sarebbe uscito la volta successiva.
Una sorta di panico orgiastico s'impadronì della città. Viali e piazze anonimi e banali divennero d'un tratto fecondi di metamorfosi come una foresta stregata. Che le apparizioni fossero ombre dei morti, ricostruzioni sintetiche di esseri viventi oppure replicanti che non somigliavano a nulla di conosciuto, esse abitavano nella stessa dimensione dei vivi, giacché il dottor Hoffman aveva ampliato enormemente i limiti di questa dimensione. Le pietre stesse avevano bocche parlanti. Da parte mia decisi che le apparizioni erano oggetti - forse idee personificate - che potevano pensare ma non esistevano. Questa sembrava l'unica ipotesi che potesse giustificare il mio caso, perché io le riconoscevo - le vedevo: urlavano verso di me e m'imploravano - eppure non credevo in esse.
La fantasmagorica ridefinizione della mia città era perennemente fluttuante, poiché era ormai il regno dell'effimero.
Palazzi di nubi sorgevano spontaneamente, poi crollavano in silenzio scoprendo per un attimo i familiari magazzini al di sotto, finché venivano rimpiazzati da qualche nuova bizzarria. Un gruppo di pilastri canori intonava a gran voce un mantra ed ecco, ridiventavano lampioni stradali finché, al calar della notte, si tramutavano in fiori silenziosi. Teste gigantesche con l'elmo dei conquistadores veleggiavano in alto come tristi aquiloni multicolori sui comignoli sghignazzanti. Di rado qualcosa restava immutato per più di un secondo, e la città non era più una produzione cosciente dell'umanità; era diventata il regno arbitrario del sogno.
I boulevard frusciavano di mendicanti che indossavano lunghe vesti fatte di ritagli, collane di perline e turbanti laceri; impugnavano bastoni decorati con mazzi di nastri multicolori. Sostenevano di essere profughi scesi dalle montagne, che ora per guadagnarsi da vivere non potevano fare altro che vendere ai creduloni filtri e talismani contro gli spettri domestici che facevano cagliare il latte o si acquattavano nei camini divorando le fiamme in modo che i fuochi non dessero luce. Ma i mendicanti possedevano solo il più incerto degli stati di realtà e da un momento all'altro potevano restare intrappolati dai raggi dei radar del ministero della Determinazione, e svanire con un lieve stridio, lasciando qualche cittadino con le monete ancora strette nella mano protesa, intento a fissare l'aria. A volte i talismani che vendevano svanivano insieme con loro, anche se erano stati già riposti negli altarini domestici dei loro acquirenti; e a volte no.
La questione della natura dei talismani era oggetto di congetture insieme profane e profonde, perché in taluni casi gli spettrali venditori dovevano aver intagliato le loro rozze immagini nel legno solido, che non aveva la proprietà di dissolversi, ma, in tal caso, come poteva un coltello d'ombra tagliare del legno reale tratto da un albero vivente? Evidentemente i fantasmi erano in grado di ricavare forme da sostanze naturali. Il terrore superstizioso dei cittadini raggiunse un culmine di delirio febbrile, e spesso si scatenavano tumulti contro qualunque sventurato il cui aspetto avesse un qualche sentore di trasparenza, o che al contrario sembrasse troppo reale in modo non convincente. I sospetti spesso venivano fatti a pezzi. Ricordo una sommossa che si scatenò quando un uomo strappò un bimbo da una carrozzina e lo sfracellò al suolo perché si lamentava che aveva un sorriso "troppo naturale".
Alla fine del primo anno non c'era più modo di indovinare quello che si sarebbe visto aprendo gli occhi al mattino, perché i sogni degli altri invadevano insidiosamente la camera da letto durante il riposo, e tuttavia sembrava che il sonno fosse l'unica privacy che ci era concessa perché almeno, dormendo, sapevamo di sognare, mentre la sostanza delle nostre ore di veglia, tanto bersagliate da apparizioni, era diventata così tenue e inconsistente da sembrare null'altro che apparenza, o altrimenti il fragile commento marginale ai nostri sogni. Allettanti ricordi del passato avvolti in un lenzuolo attendevano ai piedi del letto per salutarci, e spesso erano ricordi del passato di qualcun altro, anche se auguravano lo stesso «Buon giorno» con esasperante familiarità, quando aprivamo gli occhi stregati. Bimbi morti venivano a trovarci in camicia da notte, strofinandosi gli occhi per liberarli dal sonno e dal terriccio della tomba. Non tornavano soltanto i morti, ma anche i vivi perduti. Innamorati abbandonati venivano spesso attirati nell'abbraccio di amanti infedeli, e questo causava al ministro le preoccupazioni più gravi, perché temeva che un giorno un uomo ingravidasse un'apparizione e che una generazione di spettri mezzosangue inquinasse ancor più la città. Ma io, che spesso mi sentivo a mia volta uno spettro mezzosangue, non mi preoccupavo troppo per quello. Comunque, gran parte delle apparizioni intorno a noi non era affatto familiare, anche se spesso richiamavano in modo allettante aspetti di esperienze passate, come se fossero ricordi di ricordi dimenticati.
Il senso dello spazio era profondamente alterato al punto che a volte le proporzioni di edifici e paesaggi cittadini ingigantivano fino a dimensioni enormi, sinistre, o si ripetevano all'infinito in una inquietante fuga prospettica. Ma questo era molto meno sconcertante degli oggetti che riempivano tali prospettive gigantesche. Spesso, sotto le volte metalliche delle stazioni ferroviarie, si ammiravano donne dalla perlacea, eroica nudità, con i capelli elaboratamente acconciati negli imponenti chignon fin de siècle,passeggiare all'ombra del parasole con la stessa serenità che avrebbero mostrato nel Bois de Boulogne, fermandosi di quando in quando per accarezzare, con il tocco giudiziosamente avveduto dei proprietari di cavalli di razza, i fianchi di locomotive a vapore che non funzionavano più. E perfino gli uccelli nell'aria sembravano posseduti da demoni. Alcuni crescevano fino ad assumere le dimensioni e il temperamento di giaguari alati. Passeri con gli artigli cavavano gli occhi ai bambini piccoli. Voli schiamazzanti di storni si avventavano in picchiata su qualche derelitto affamato che frugava in una massa di sogni e rifiuti in un rigagnolo e gli strappavano dalle ossa quel poco di carne che restava. I piccioni zampettavano goffamente da illusorie cimase a davanzali come folli pennuti volatili, ciangottando versi osceni e ridendo con voci roche e gutturali, o si appollaiavano sui comignoli gridando citazioni di Hegel. Ma spesso, addirittura a mezz'aria, gli uccelli dimenticavano la tecnica e la meccanica dell'atto stesso del volo e piombavano giù, cosicché ogni mattina si trovavano sui marciapiedi sciami di uccelli morti simili a foglie secche o a fiocchi bruni di neve portati dal vento. A volte il fiume scorreva all'indietro e pesci impazziti saltavano fuori per atterrare con un tonfo sui marciapiedi e dibattersi per qualche tempo sul ventre, finché morivano soffocati per mancanza d'acqua. Era inoltre il trionfo del trompe l'oeil,giacché le forme dipinte avevano il predominio su quelle vive che imitavano. I cavalli dei quadri di Stubbs nella Galleria d'Arte municipale nitrivano, scuotevano la criniera e uscivano con grazia dalle tele per andare a brucare l'erba dei parchi pubblici. Un pingue Bacco vestito soltanto di alcuni grappoli d'uva si allontanò da un Tiziano per entrare in un bar e istituirvi feste dionisiache.
Ma solo alcune di quelle metamorfosi erano liriche. Di frequente, massacri immaginari riempivano di sangue i rigagnoli e inoltre l'effetto psicologico cumulativo di tutte queste distorsioni, combinandosi con lo sfasamento della vita quotidiana e i disagi e le privazioni di cui cominciavamo a soffrire, creavano un'ansietà radicata e un senso di profonda malinconia. Sembrava che ciascuno di noi fosse intrappolato in una vertiginosa spirale di irrealtà a cui non saremmo mai riusciti a sfuggire. Molti si suicidarono.
Il commercio era allo stremo. Tutte le fabbriche chiusero i battenti e la disoccupazione divenne generale. Nell'aria aleggiava sempre l'odore della decomposizione perché i servizi pubblici erano completamente disorganizzati. Il tifo imponeva un pesante pedaggio e correvano voci sinistre di colera o di malattie ancor peggiori. L'unica forma di trasporto che il ministro consentiva in città era la bicicletta, giacché può essere sospinta solo da quel costante sforzo di volontà che preclude l'immaginazione. La polizia di Determinazione impose un rigoroso sistema di razionamento nel tentativo di far durare il più a lungo possibile, centellinandole, le sempre più scarse riserve di viveri della città, ma i cittadini mentivano senza scrupoli riguardo alle loro necessità e a quelle dei loro cari, irrompevano nei negozi per rubare e presentavano tranquillamente alle autorità i buoni per il pane falsificati di cui il dottor Hoffman inondava le strade. Dopo che il ministro ebbe isolato la città, le uniche notizie del paese esterno alla capitale che ci giunsero provenivano dai concisi, laconici rapporti della polizia di Determinazione e dai pettegolezzi dei pochi contadini che avevano le credenziali necessarie per superare le guardie ai posti di blocco con una cesta o due di verdure e qualche stia di polli.
Il dottor Hoffman aveva distrutto il tempo e giocava con gli oggetti di cui ci servivamo per misurarlo. Spesso, lanciando un'occhiata all'orologio, scoprivo che le lancette erano state rimpiazzate da una robusta vegetazione di edera o caprifoglio che, mentre guardavo, dilagava impudente su tutto il quadrante, nascondendolo. Gli scherzi con gli orologi da polso e a pendolo erano i suoi trucchi preferiti, perché in questo modo ci faceva toccare con mano che non avevamo più una struttura temporale in comune. All'interno delle divisioni gemelle fra luce e ombra non c'era più segmentazione, perché i pochi orologi rimasti indicavano ciascuno un'ora diversa e nessuno se ne fidava più. Il passato occupava la città per giorni interi, a volte, cosicché le strade di cent'anni prima si sovrapponevano alle strade odierne e io ritrovavo il cammino per andare in ufficio soltanto a memoria, lungo sentieri mai percorsi prima, che sembravano indistruttibili come la terra stessa e invece sarebbero svaniti, presumibilmente, non appena qualcuno dell'entourage del dottor Hoffman si fosse annoiato e avesse premuto un interruttore.
Le statistiche relative a furti, incendi dolosi, rapine a mano armata e violenza carnale salirono a livelli astronomici e non era più prudente, né in senso fisico né metafisico, uscire dalla propria stanza di notte, anche se non si era particolarmente al sicuro neppure restando in casa. Vi furono due casi di peste sospetta. A partire dall'inizio del secondo anno non ricevemmo più notizie dal mondo esterno perché il dottor Hoffman intercettava tutte le onde radio. Pian piano la città acquistò un'aria di maestosa solitudine. Poi vi prese forma - o fu essa a forgiarla - una bellezza desolata, la bellezza della disperazione, una bellezza che prendeva al cuore e faceva sgorgare le lacrime. Non si sarebbe mai creduto che fosse possibile per la mia città diventare bella.
In certi momenti, specie di sera, quando le ombre si allungavano, la luce matura del tramonto scendeva con una singolare, suggestiva pesantezza, intrappolando gli edifici cadenti in una quiete dolce, solida, quasi conservandoli nel miele. Indorato dai raggi di Mida del sole calante, il cielo assumeva l'apparenza di una sottile sfoglia d'oro come lo sfondo di certi dipinti antichi, cosicché le sagome monolitiche e deformi, prive di spessore, della città assumevano il fascino eccessivo di ciò che è totalmente artificiale. Allora noi - vale a dire, quelli di noi che conservavano una certa nozione di ciò che era reale e di ciò che non lo era - sperimentavamo la vertigine di coloro che son sospesi sull'orlo di un magico precipizio. Ci sorprendevamo a trattenere il fiato quasi in attesa, come se ci trovassimo sulla soglia di un grande evento, trafitti nell'attimo portentoso dell'attesa, anche se dentro di noi eravamo turbati poiché la nuova, terribile, orchestrazione del tempo e dello spazio che ci circondava poteva essere soltanto l'ouverture di qualcos'altro, di qualcosa di molto più profondamente audace di tutti gli assalti contro le cose che conoscevamo da sempre. Il ministro era l'unica persona di mia conoscenza che non provasse mai, nemmeno una volta, una simile sensazione di immanenza.
In tutta la sua vita, il ministro non avvertì mai il minimo fremito di incertezza empirica. Era la creatura più dura che sia esistita al mondo e mai il balenio di un miraggio distorse neanche per un fuggevole istante l'austera e intransigente obiettività del suo viso, anche se, dal mio punto di vista, il suo lavoro consisteva essenzialmente nel porre un freno al pensiero, poiché mi sembrava che il dottor Hoffman facesse proliferare il suo arsenale di immagini lungo l'oscura e controversa linea di confine fra il concepibile e l'inconcepibile.
«Benissimo» diceva il ministro. «Il dottore ha inventato un virus che provoca il cancro della mente, cosicché le cellule dell'immaginazione impazziscono. E noi dobbiamo trovare... noi troveremo!... l'antidoto.»
Ma ancora non aveva idea di come avesse fatto il dottore, anche se era chiaro che di giorno in giorno diventava sempre più abile. Così il ministro, che non aveva neanche un briciolo di superstizione, fu costretto a diventare un esorcista, poiché tutto ciò che poteva fare era tentare di scacciare gli spettri dalle strade indemoniate e anche se aveva dalla sua parte una batteria di congegni tecnologici, in ultima analisi si ridusse a ricorrere ai metodi della medievale caccia alle streghe. Raramente avevo lo stomaco di passare davanti al Laboratorio C per i test sulla realtà, perché l'odore di maiale arrosto mi nauseava e mi chiedevo se per caso il ministro, spinto dalla disperazione, intendesse riscrivere il cogito cartesiano in questo modo: "Soffro, dunque sono" e fondare su di esso i suoi test giacché, nei casi di ostinata ed estrema confusione, si ricorreva alla prova del fuoco. Se usciva vivo dal forno crematorio, era ovviamente irreale, se invece si era ridotto a una manciata di cenere, era stato autentico. Alla fine del secondo anno, quasi tutti gli altri espedienti - il radar eccetera - si stavano rivelando fallibili, in ogni caso. La polizia di Determinazione sosteneva che il forno crematorio aveva carbonizzato un buon numero di agenti di Hoffman ma, quanto a me, diffidavo della polizia di Determinazione perché i soprabiti di cuoio nero lunghi fino alle caviglie e stretti da cinture massicce, i cappelli di feltro a cupola bassa e tesa larga e gli stivali fin troppo lucidi ridestavano in me una deprimente catena di associazioni mentali. Sembravano reclutati in blocco da un incubo ebraico.
All'inizio della guerra la prima arma di contrattacco da noi escogitata fu l'Apparato Radar Determinante, che era insieme difensivo e offensivo in quanto incorporava nel suo raggio un laser. L'Apparato Radar Determinante funzionava in base al principio che la sostanza non solida che poteva, tuttavia, essere percepita dai sensi avesse una struttura molecolare fitta di sporgenze. Il modello dell'atomo d'irrealtà conservato nell'ufficio del ministro consisteva in un tetraedro composto da un certo numero di spazzole per capelli. Si riteneva che i raggi del radar urtassero contro questo letto di spine e lanciassero quindi un grido inudibile che veniva visualizzato sugli schermi del quartier generale. Il grido azionava automaticamente il laser e annientava all'istante la non-sostanza ostile. Per un certo tempo, nella seconda metà del primo anno, il ministro ostentò un lieve sorriso, poiché ogni giorno disintegravamo interi battaglioni di guerrieri soprannaturali, ma i laboratori di ricerca del dottore dovettero ristrutturare in gran fretta la molecola del loro prototipo dato che, verso Natale, gli schermi del quartier generale cominciarono pian piano a rimanere vuoti, lasciandosi sfuggire solo qualche stridio occasionale quando un raggio sfiorava accidentalmente qualcosa che ormai era evidentemente un'illusione obsoleta, forse usata soltanto come diversivo: fenomeni come, per esempio, un uomo il cui cappello era diventato la testa; mentre spettacoli sempre più indecorosi danzavano e gridavano in una città riconoscibile soltanto a intermittenza. Il sorriso del ministro svanì. I nostri fisici, che avevano tutti una qualifica a tre stelle e la pazienza di Giobbe, formularono infine un nuovo modello ipotetico per la modificazione dell'atomo dell'irrealtà. Era una sfera di specchi, simile a una lacrima riflettente, e il capo della squadra, il dottor Drosselmeier, spiegò al ministro e a me che le molecole dovevano saldarsi fra loro come una coalescenza di gocce di pioggia.
A questo punto, il dottor Drosselmeier impazzì. Lo fece senza preavviso ma in modo estremamente melodrammatico. Fece saltare in aria il laboratorio di fisica, l'archivio che conteneva la somma totale delle sue ricerche, quattro dei suoi assistenti e se stesso. Non credo che il crollo nervoso fosse dovuto a qualche oscura macchinazione del dottore, anche se cominciavo ad avere l'impressione che il dottore fosse onnipotente; sospetto che Drosselmeier si fosse inavvertitamente esposto a un'overdose di realtà e questa avesse distrutto la sua ragione. Comunque, il disastro ci lasciò del tutto privi di difese e il ministro fu obbligato a contare maggiormente sui metodi primitivi e sempre più brutali della polizia di Determinazione, mentre dal canto suo sovrintendeva a un progetto che riteneva ci avrebbe finalmente salvati dal dottore. Quando parlava del suo progetto, uno scintillio controllato ma messianico s'insinuava nei suoi occhi di solito freddi e scettici.
Era intento alla costruzione di un immenso centro computerizzato che avrebbe formulato un procedimento sistematico per calcolare la coerenza di un determinato oggetto. Riteneva che il criterio di riconoscimento della realtà consistesse nel fatto che una cosa era ben definita e che la sua identità risiedesse soltanto nella misura in cui somigliava a se stessa. Era il più ascetico dei logici, ma, se aveva un difetto fatale, era un tocco di tomismo. Era convinto che la città - che considerava un microcosmo dell'universo - contenesse una serie finita di oggetti e una serie finita delle loro combinazioni, e che pertanto si potesse redigere una lista di tutte le possibili forme distinte che erano logicamente vitali. Queste potevano essere contate, organizzate in una trama concettuale, e formare così una specie di lista di controllo per la verifica di tutti i fenomeni, disponibile all'istante grazie a un sistema informatico di estrapolazione dei dati. Così era impegnato nel compito quasi sovrumano di programmare i computer con dati concreti riguardanti ogni singolo elemento che, per quanto fosse umanamente possibile giudicare, era mai - sia pure una sola volta e anche allora momentaneamente - esistito. In questo modo l'esistenza di un qualsiasi oggetto, per quanto bizzarro potesse apparire a prima vista, poteva essere confrontata con l'intera storia del mondo per poi ricevere un coefficiente di possibilità. Una volta che una cosa era registrata come "possibile", tuttavia, cominciava il procedimento infinitamente più complesso destinato ad accertare se era probabile.
A volte mi parlava di politica. La sua filosofia politica aveva la statica magnificenza della musica contrappuntistica preclassica: mi descriveva una serie di istituzioni intrecciate, contenute l'una nell'altra, governate dal principio di una grande correttezza. La definiva "teoria dei nomi e delle funzioni". Ogni uomo era sicuro nel possesso di un certo nome che gli assicurava anche una posizione ben precisa in una società vista come una serie di anelli intrecciati che, sebbene in perpetuo movimento, non erano soggetti a cambiamenti perché non vi erano mai agitazioni né usurpazioni di nomi o ranghi o ruoli. E la città ruotava in questo modo profondamente armonioso, con la raggiante serenità di un luogo in cui tutto era inevitabile poiché, non appena la morte di un governante completava un movimento del celestiale concerto, l'instaurazione di un nuovo governante segnalava l'inizio di un altro movimento esattamente simile nella forma. Il ministro aveva una straordinaria passione per Bach. Pensava che Mozart fosse frivolo. Era sobrio e pacato come un mandarino.
Ma benché fosse l'uomo più razionale del mondo, nel presente stato di cose era solo uno stregone, anche se gli spettri che si era votato a sradicare non erano veri spettri, ma fenomeni evocati da un uomo che probabilmente era il più grande fisico di tutti i tempi. Eppure, in sostanza, era una battaglia fra un enciclopedista e un poeta perché Hoffman, pur essendo uno scienziato, utilizzava le sue formidabili conoscenze solo per rendere visibile l'invisibile, anche se ci sembrava che il suo obiettivo finale fosse dominare il mondo.
Il ministro trascorreva una notte dopo l'altra in mezzo ai computer. Il suo viso divenne grigio e tirato per l'eccessivo lavoro e le sue belle mani tremavano di stanchezza, eppure rimase infaticabile. Ma a me pareva che cercasse di lanciare la trama arbitrariamente sottile della sua rete su nient'altro che un mare di miraggi, poiché si rifiutava di ammettere che i fantasmi erano tangibili, che si potevano vedere e toccare, baciare e mangiare, penetrare e raccogliere in mazzi da disporre in un vaso. Il variegato spettacolo di mirabilie che ora ci attorniava era complesso quanto un uomo reale, mentre il ministro vedeva l'intero spettacolo come una superficie corrugata di varie sfumature di grigio, come il cadavere incolore di se stesso. Tuttavia questa limitazione della fantasia gli permetteva di scorgere la città come un cruciverba esistenziale che un giorno si sarebbe potuto risolvere. Io passavo le giornate al suo fianco, preparando innumerevoli tazze di tè - che lui beveva molto forte, senza limone né zucchero - svuotando i posacenere che traboccavano e cambiando i dischi di Bach e dei barocchi che faceva suonare in sordina tutto il tempo per favorire la concentrazione. Mia madre veniva a trovarmi; il mio nome cambiava sulla targhetta del campanello; i miei sogni erano così sconcertanti che, mio malgrado, ero spaventato all'approssimarsi del sonno. E tuttavia non riuscivo a provare il minimo interesse per tutto questo.
Avevo la sensazione di assistere a un film in cui il ministro era l'eroe e l'invisibile dottore senza dubbio il cattivo; ma era un film interminabile e lo trovavo tedioso perché nessuno dei personaggi attirava la mia simpatia, anche se li ammiravo, e tutte le situazioni sembravano le macchinazioni fasulle di un fantasista incapace. Ma avevo una curiosa allucinazione persistente, che oscuramente mi turbava perché niente in essa mi era familiare e, ogni volta che la vedevo, era sempre identica. Ogni notte, mentre ero sospeso ai limiti di un sonno che ormai era divenuto esteticamente defatigante come Wagner, ricevevo la visita di una giovane donna in un négligé fatto di un tessuto del colore e della consistenza dei petali di papavero, che le aderiva al corpo senza nasconderne la carne assolutamente trasparente, al punto che la delicata filigrana dello scheletro era visibile con estrema chiarezza. Nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi il cuore, fluttuava un viluppo di fiamme che sembravano nastri, e lei vibrava leggermente come l'aria in una torrida giornata estiva. Non parlava; non sorrideva. Eccezion fatta per i lievi fremiti della sua sostanza inimmaginabile, non si muoveva. Ma non mancava mai di venire a visitarmi. Ora so che le manifestazioni di quei giorni erano - come forse allora sospettavo, ma rifiutavo di confessare a me stesso - un linguaggio dei segni, che mi lasciava del tutto sconcertato perché non sapevo decifrarli. Ogni apparizione era un simbolo palpitante di significati spaventosi ma lei sola, la visitatrice dalle carni di vetro, mi faceva intuire un barlume della natura dei misteri che ci attorniavano e riempivano di terrore tanti di noi.
Lei restava accanto a me durante il sonno, vibrante, luminosa, ammantata di un diafano scarlatto, e di tanto in tanto lasciava un ordine scritto con il rossetto sul vetro impolverato della mia finestra. SII AMOROSO! mi esortò una notte, e la notte seguente: SII MISTERIOSO! Qualche notte più tardi, scarabocchiò: NON PENSARE, GUARDA; e, poco dopo, mi ammonì: QUANDO COMINCI A PENSARE, PERDI DI VISTA L'ESSENZIALE. Questi messaggi mi irritavano e tuttavia mi stregavano. Mi restavano nella mente per tutto il giorno tormentandomi come un granello di polvere rimasto intrappolato sotto le palpebre. Lei era diversa dalla comica apparizione che pretendeva di essere mia madre e si appollaiava sulla mensola del caminetto a guisa di una grassa civetta bianca implorando il mio perdono e recitando le orazioni con voce stridula. Lo scheletro visibile, il mirabile bouquet di ossa - gli elementi formali della fisicità - apparteneva al terzo ordine di forme che fra poco ci avrebbero assalito, la schiera degli angeli, dei leoni parlanti e dei cavalli alati, le apparizioni miracolose che a volte la città sembrava attendere in ansioso silenzio e che a loro volta sarebbero stati soltanto gli straordinari messaggeri dell'arrivo dell'Imperatore del Meraviglioso, di cui a quel punto saremmo diventati tutti creature.
Conoscevamo il nome del nostro avversario. Conoscevamo la data in cui si era laureato con lode in fisica presso l'università nazionale. Sapevamo che suo padre era stato un banchiere gentiluomo che si era dilettato un po' di occultismo e sua madre una signora che amava organizzare cucine per i poveri nei ghetti e scuole di cucito per prostitute pentite. Scoprimmo perfino, con tacito imbarazzo del ministro, che anche mia madre, durante una delle sue crisi di pentimento, aveva cucito per me in una delle scuole della signora Hoffman una sottoveste di flanella disintegratasi in modo patetico, che avevo portato per un giorno solo prima che le cuciture si disfacessero, simbolo appropriato del pentimento di mia madre. Immagino che la coincidenza mi abbia ispirato un blando senso di attaccamento alla famiglia Hoffman, come se, in un pomeriggio piovoso, avessi parlato un po' con sua zia del tempo su un accelerato di campagna. Conoscevamo la data precisa, 18 settembre 1867, in cui il bisnonno del dottor Hoffman era arrivato nel mio paese, un esponente della piccola nobiltà dai magri mezzi, sfuggito a imprecisabili rovesci in un montagnoso principato slavo infestato dai lupi, che in seguito era stato soppresso giuridicamente durante la guerra franco-prussiana o qualche altra simile. Sapevamo che, quando era nato il figlio, suo padre gli aveva fatto l'oroscopo e poi aveva offerto alla levatrice che lo aveva aiutato a venire al mondo una ricompensa di alcune migliaia di dollari. Sapevamo che da ragazzo Hoffman era stato coinvolto in uno scandalo omosessuale alla scuola preparatoria e sapevamo perfino quanto era costato mettere a tacere lo scandalo. Il ministro dedicò un'intera fila di computer a immagazzinare dati sul dottor Hoffman. Registrammo addirittura le sue malattie infantili e il ministro trovò particolarmente significativo un attacco di febbre cerebrale durante il settimo anno e una crise de nerfs nel sedicesimo.
Comunque, un certo giorno di circa vent'anni prima, il dottor Hoffman, professore di fisica già enormemente noto all'università di P., aveva licenziato con poche parole cortesi e una generosa ricompensa il valletto che si occupava di lui; aveva fatto un falò dei taccuini d'appunti; aveva ficcato in una valigia uno spazzolino da denti, un cambio di camicie e di biancheria e una scelta della biblioteca di libri cabalistici del padre; aveva preso un taxi per la stazione ferroviaria centrale; aveva comprato un biglietto di sola andata per la località montana di L.; si era recato al binario giusto, dove aveva acquistato un pacchetto di sigarette estere e un sacchetto di mandarini al chiosco; era stato notato da un facchino mentre sbucciava e consumava un frutto; era stato visto da un altro facchino entrare nella toilette degli uomini; e poi si era dileguato. Si era dileguato in modo così fulmineo che erano perfino apparsi dei necrologi sulla stampa.
Negli anni precedenti alla Guerra della realtà, un uomo di spettacolo itinerante che si faceva chiamare Mendoza si era guadagnato da vivere girando per le fiere di campagna e i luna park con un piccolo teatro. Questo teatro non aveva attori; era un "peep-show più cinematografo", ma offriva proiezioni tridimensionali e quelli che lo visitavano restavano impressionati dal realismo di ciò che vedevano. Mendoza prosperava. Con il tempo aveva portato il suo teatro alla fiera di Pentecoste della capitale, ma a quel punto la sua arte aveva fatto progressi e ora offriva un viaggio in una macchina del tempo. I clienti erano invitati a spogliarsi e a indossare ogni sorta di costumi d'epoca forniti loro dall'impresario. Quando erano abbigliati in modo adeguato, le luci si abbassavano e Mendoza proiettava su uno schermo alcuni vecchi cinegiornali e di tanto in tanto un film muto. I film avevano, per così dire, delle fessure attraverso le quali gli spettatori potevano inserirsi, entrando così a far parte dello spettacolo di ombre cinesi cui assistevano. Parlai con un uomo che, da bambino, era stato in questo modo testimone oculare dell'attentato di Sarajevo. Diceva che in quel momento pioveva fitto e tutti si muovevano con la spasmodica rigidità a scatti delle figurine degli orologi a pendolo. Quell'uomo di spettacolo, Mendoza, doveva essere stato uno dei primi discepoli del dottor Hoffman, o forse addirittura uno dei suoi primi missionari. Nel corso universitario di Hoffman c'era uno studente di nome Mendoza, definito psicologicamente instabile, che non aveva completato gli studi. Ma un giorno una folla di ubriachi aveva incendiato il suo tendone e Mendoza era rimasto ustionato tanto gravemente da morire pochi giorni dopo nell'anonima corsia di un ospedale, assistito dalle suore di carità. Ciò che lo collegava senza dubbio a Hoffman era stato il suo ripetuto farfugliare: «Guardatevi dall'effetto Hoffman!» Sul letto di morte duro come una tavola di legno, sotto un casco di bende, non aveva fatto che ripetere quelle parole, ricordava un'anziana suora. Ma ormai Mendoza era irrevocabilmente morto e il ministro si domandava se non fosse una falsa pista.
Il ministro aveva costruito un modello ipotetico dell'invisibile dottor Hoffman, proprio come il dottor Drosselmeier aveva costruito un modello dell'atomo di irrealtà. Dal curriculum accademico dello scienziato ci rendemmo conto che quasi non esisteva branca della scienza umana che gli fosse ignota. Sapevamo della sua inclinazione per l'occulto. Conoscevamo la misura di cappello, guanti e scarpe che portava; la sua marca preferita di sigari, acqua di colonia e tè. Il modello ricostruito dal ministro era quello di un genio folle, un megalomane che voleva il potere assoluto e si sarebbe spinto a ogni eccesso pur di ottenerlo. Lui riteneva che Hoffman fosse un essere satanico, e tuttavia conoscevo il mio maestro troppo bene per non capire che era punto da una lieve invidia per il potere stesso di cui il dottore abusava con tanta nonchalance,il potere di sovvertire il mondo. Questo non intaccava la mia ammirazione per il ministro. Al contrario, la mia ambizione era così scarsa che lo spettacolo della sua - tormentosa - m'impressionava enormemente. Era come un Faust che non riesce a trovare un diavolo ben disposto. Oppure, se lo avesse trovato, non sarebbe riuscito a credere in lui.
Il ministro aveva tutti i desideri di Faust ma, negando il trascendente, si era tarpato le ali da solo. Nei giorni dedicati alla riflessione, solevo pensare che la leggenda di Faust era una versione ridotta del mito di Prometeo, che sfidò l'ira del dio per impadronirsi del fuoco e fu punito per questo. Non riuscivo a capire che cosa potesse esserci di male nella conoscenza in sé, a qualunque prezzo. Nonostante il mio lavoro, non avevo preso posizione nella lotta fra il dottor Hoffman e il ministro. A volte avevo riflettuto che Hoffman era in tutto e per tutto Prometeo e per nulla Faust, giacché Faust si era accontentato di banali trucchi mentre le manifestazioni intorno a noi sembravano fatte di fiamme autentiche. Ma tenevo questi pensieri per me. Ciò nonostante, occorre rendersi conto che gli avversari erano di eguale statura. Il ministro doveva possedere una forza d'animo soprannaturale per avere resistito così a lungo, ed era la sua formidabile intransigenza a sostenere da sola la città.
In effetti, era diventato la città. Si era trasformato nelle mura invisibili della città stessa; concentrava in sé la totalità della resistenza cittadina. I suoi movimenti cominciarono ad assumere una grandezza megalitica. Diceva continuamente: «Niente resa!» e non potevo negare la sua dignità. La onoravo perfino. Ma, quanto a me, non avevo alcun interesse personale nella cosa.
L'assedio entrò nel terzo anno. Le riserve di viveri erano quasi esaurite. Un'epidemia di colera decimò i sobborghi orientali, e quella settimana furono denunciati trenta casi di tifo. Perfino la disciplina della polizia di Determinazione cominciava a mostrare la corda e ogni tanto uno degli agenti sgattaiolava nell'ufficio del ministro per fare rapporto sul conto di un collega. La mia padrona di casa svanì. In qualche modo, senza che nessuno lo sapesse, era morta chissà dove, così ormai ero solo in casa. Ogni giorno la polizia reprimeva i disordini con gas lacrimogeni e raffiche di mitra. Ed era un'estate accecante, umida, fetida, un'estate che puzzava di sterco, di sangue e di rose, perché non si erano mai viste rose come quelle che fiorirono quell'estate. Si arrampicavano dovunque e gocciolavano quasi trasudassero il più greve e inebriante dei profumi, che sembrava ubriacare le mura stesse delle case. I sensi si fondevano; a volte quelle rose emettevano melodie pentatoniche sommesse ma insopportabilmente penetranti che erano il suono del loro colore cremisi cupo, eppure noi le sentivamo nelle narici. Pallido come una limonata, il sole mattutino tremolava come una moltitudine di violini e io sentivo un sapore di mele acerbe nella rada pioggia verde di mezzanotte.
Era il giorno precedente al mio ventiquattresimo compleanno. Nel pomeriggio, la cattedrale crollò in un tripudio di melodiosi fuochi artificiali.
Era il nostro monumento nazionale più importante. Era di dimensioni enormi e di una sublime castità architettonica. Fino ad allora, la sua severa facciata di imitazione classica aveva ignorato con dignità tutti i capricciosi tentativi del dottore di trasformarla in un parco dei divertimenti o in un museo di polene di navi o in un mattatoio, così luì la fece infine saltare in aria con uno spettacolo pirotecnico. Il ministro e io assistemmo dalla finestra alle luminarie. La cupola s'innalzò e si dissolse sullo sfondo del limpido cielo azzurro di metà pomeriggio come un parasole fiammeggiante ma, mentre io rimpiangevo che lo spettacolo non avesse avuto luogo di notte, quando lo avrei apprezzato meglio, vidi che il ministro piangeva. Berlioz ci travolse; eravamo nel cuore di una sinfonia fantastica, in attesa del culmine, la morte, che sarebbe arrivata sotto forma di un circo fatale.
Per cena, mangiai un'insalata di tarassaco raccolto dal muro della mia casa, che aveva cominciato a fiorire. Mi preparai da bere un surrogato di caffè con la razione settimanale di un etto e lessi un po', ricordo. Lessi alcune pagine del Ricciolo rapito. Quando fu ora di dormire, lei venne a me. Per la prima volta le sorrisi; lei non rispose. Dormii; e la mattina dopo mi svegliai presto, ma sapevo di essere ancora addormentato perché il mio letto era, infatti, un'isola nel mezzo di un lago immenso.
La notte si approssimava, anche se sapevo che era quasi l'alba perché fuori - fuori, cioè, del sogno - un gallo continuava a cantare. Invece, nel sogno, le ombre della sera davano toni grigi alle acque increspate intorno a me e un vento lieve agitava gli aghi dei pini, giacché l'isola era ricoperta di quegli alberi. Nulla si muoveva, eccetto la lieve brezza solitaria. Io attendevo, perché il sogno esigeva imperiosamente che attendessi, e mi parve di attendere all'infinito. Non credo di essermi mai sentito tanto solo, come se fossi l'ultima creatura vivente rimasta al mondo e l'isola e il lago fossero tutto ciò che restava del mondo.
Infine vidi l'oggetto della mia veglia. Una creatura si avvicinava sull'acqua, ma non mitigò la mia solitudine perché, sebbene potessi vedere che era viva, non sembrava viva allo stesso modo in cui lo ero io, e rabbrividii di terrore. So che dovetti restare immobile in un atteggiamento di reverente ascolto, come per udire il graffiare degli artigli dell'ignoto sulla scorza esterna del mondo. L'emozione più antica e più intensa del genere umano è la paura, e la forma più antica e più intensa di paura è il timore dell'ignoto; io avevo paura. Avevo avuto paura da bambino, quando restavo sveglio la notte e sentivo mia madre ansimare e grugnire come una tigre nel buio, dietro la tenda, e pensavo che si fosse tramutata in una bestia. Adesso ero ancor più spaventato di allora.
Quando si avvicinò, vidi che era un cigno. Era un cigno nero. Non so dirvi quanto fosse brutto; e nemmeno quanto fosse meraviglioso. I suoi occhi vuoti erano troppo ravvicinati sul cranio ed esprimevano una sorta di malignità e di insensibilità del tutto spoglie di attrattive, benché il male di solito sia attraente, in quanto è una sfida. Il collo allungato non aveva affatto la grazia che si attribuisce per tradizione al collo dei cigni, ma oscillava stupidamente, ora di qua, ora di là, come un tubo di gomma. E il becco, che era del rosso chiaro, rosato, delle rose prive di profumo, interrotto da una sola striscia bianca, era piatto e largo, a spatola, adatto solo a estrarre vermi dal fango. Nuotava verso di me con aria implacabile e terribile ma, quando ci separavano appena poche braccia di acqua increspata, si fermò per spiegare le sue ali enormi come se aprisse un ombrello araldico.
Mai avevo visto un nero simile, un nero così soffice, vellutato, assoluto, un nero intenso come la negazione della luce, nero come lo spegnersi della coscienza. Il cigno fletté il collo come un serpente sul punto di attaccare, schiuse il becco e cominciò a cantare, cosicché capii che stava per morire e compresi inoltre che era una femmina e anche una donna, poiché la voce che sgorgava dalla sua gola era una vibrante, erotica voce di contralto. Il canto era un selvaggio lamento senza parole con le cadenze drammatiche del flamenco, in una scala le cui note non mi erano familiari, eppure sembravano quelle di un modo platonico finale, una musica elementare. Le ombre infittivano, ma un ultimo raggio del sole invisibile fece scaturire un bagliore da un collare d'oro intorno alla gola pulsante del cigno, e sul collare era incisa una sola parola: ALBERTINA. Il sogno scoppiò come una tempesta e mi svegliai.
La stanza era invasa da un sole velato. Il gallo aveva smesso di cantare. Ma non ero del tutto sveglio, pur avendo gli occhi aperti; il sogno mi aveva lasciato la testa annebbiata e vidi a malapena il mattino anche se andai, come al solito, in ufficio e trovai il ministro che esaminava la posta. Stava studiando una lettera che era arrivata in una busta con il timbro di uno degli agiati sobborghi a nord della città. Cominciò a ridere piano.
«L'agente speciale del dottor Hoffman vorrebbe che lo invitassi a pranzo oggi» disse, porgendomi la lettera. «La faccia esaminare subito.»
Fu sottoposta a innumerevoli computer. Passò per i Laboratori per la Verifica della Realtà A e B e la fotocopiammo prima che fosse vagliata dal Laboratorio C. Fu una fortuna, visto che era autentica.
Io dovevo accompagnare il ministro all'incontro. Il mio compito era semplice. Dovevo registrare - su un piccolissimo registratore nascosto in tasca - ogni parola che veniva scambiata fra il ministro e l'agente. Mi mandò a casa perché mi cambiassi d'abito e mettessi una cravatta. Devo dire che, più di ogni altra cosa, ero ansioso di fare un buon pasto perché cose del genere, a quel tempo, erano rare, eppure mi rendevo conto di ciò che il ministro non riusciva a vedere, ossia che il dottor Hoffman non gli avrebbe mandato l'invito se non avesse pensato di averci ormai messo in ginocchio.
Il ristorante era lussuosamente discreto. Tutto il personale aveva un livello di realtà irreprensibile, perfino i plongeurs. Aspettammo il "contatto" in un bar discreto e semibuio che emanava un profumo troppo confortevole di denaro per essere sfiorato dalla tempesta fantastica che non potevamo scorgere fuori, dato che le tende alle finestre erano così pesanti. Mentre sorseggiava un gin and tonic, il ministro a turno consultava l'orologio e batteva il piede a terra; fui colpito dal fatto che era incapace di compiere queste due azioni contemporaneamente, forse perché era così concentrato. Irradiava tensione. Un muscolo sulla guancia gli fremeva. Accendeva una sigaretta nuova dal mozzicone di quella che aveva appena spento. Capimmo chi fosse il nostro "contatto" nell'attimo stesso in cui entrò, perché tutti i petali dei fiori disposti con tanto gusto caddero all'unisono e le luci saltarono all'istante.
Una dozzina di lucciole minuscole si accesero di scatto su una dozzina di accendisigari, ma io riuscii a intravedere solo vagamente il contorno dell'emissario del dottor Hoffman finché i camerieri non portarono un certo numero di candelabri a più braccia, cosicché fu illuminato come l'icona a cui assomigliava. Una brezza sembrava aleggiare intorno a lui, tenendo in perpetua agitazione le innumerevoli piegoline della camicia di pizzo e gettando una moltitudine di ombre sul suo viso. Probabilmente era di estrazione mongola, oppure annoverava come me fra i suoi antenati qualcuno degli indiani dimenticati che ancora se ne stanno rintanati in miseria sulle montagne più inaccessibili o imboscati lungo le vie navigabili, perché la sua pelle sembrava ottone lustro, verdastro e giallognolo al tempo stesso, con le palpebre spesse e gli zigomi insolitamente alti. Capelli di un nero sontuosamente lucido, tanto da sembrare violaceo, facevano della testa un casco quasi troppo pesante per essere sorretto dalla sottile colonna del collo, e la bocca sensuale dalle labbra tumide era anch'essa di colore violaceo, come se avesse mangiato mirtilli. Intorno agli occhi, che erano di un marrone ieratico e privo di comunicativa come quelli che gli antichi egizi dipingevano sui sarcofagi, c'erano due linee spesse di cosmetico dorato e compatto, e le unghie delle lunghe mani erano laccate di un cremisi scuro, in tinta con i piedi altrettanto eleganti, lasciati completamente scoperti dai sandali che consistevano in semplici lacci dorati. Indossava calzoni a sbuffo di renna viola e portava intorno alla vita, come cintura, parecchi fili di perle. Tutti i suoi gesti erano imbevuti di una studiata ma straordinaria fluidità da serpente; quando ci alzammo per andare a mangiare, vidi che sembrava muoversi in morbide spire. Penso che fosse l'essere umano più bello che avevo mai visto - considerato, cioè, unicamente come oggetto, come struttura di carne, pelle, ossa e tessuti - eppure, con tutta la sua ambigua raffinatezza, anzi, forse per la sua stessa natura, lasciava trapelare un carattere selvaggio che era stato astutamente plasmato per adattarsi ai salotti, anche se non era affatto domato. Era un leopardo con la manicure, in lampante complicità con il caos. Sicuro nella corazza della sua ambiguità, ci trattava con condiscendenza. Il suo atteggiamento era di abile, sprezzante riserva. Non era un agente qualsiasi. Si comportava come l'ambasciatore di un principato straordinariamente potente in visita a uno staterello piccolo ma importante sul piano diplomatico. Ci trattò con la regale degnazione di una first lady e il ministro e io ci ritrovammo a comportarci come screanzati provinciali che lasciavano cadere le forchette, sorbivano la minestra rumorosamente, rovesciavano i bicchieri di vino e si schizzavano la maionese sulla cravatta, mentre lui ci osservava con lieve divertimento e con un disprezzo appena percettibile.
Nel magnanimo tentativo di metterci a nostro agio, chiacchierava a singhiozzo di musica barocca con una voce bassa e scura che aveva una singolare tonalità vellutata come una pelliccia. Ma il ministro si rifiutò di fare conversazione spicciola. Mandò giù il consommé con aria infastidita, emettendo ogni tanto un grugnito, gli occhi freddi fissi sospettosamente sulla sirena tentatrice davanti a noi, che mangiava con gesti insoliti ma aggraziati delle mani, simili a quelli delle danzatrici giavanesi. Io mangiavo la minestra e li osservavo. Era come un dialogo tra un fiore munito di tentacoli e una pietra. Un cameriere portò via i piatti e ci servì una sole véronique. Non si sarebbe detto che fossimo in guerra. Il giovane infilzò un acino d'uva con la forchetta. Ripiegò Vivaldi e i suoi contemporanei meno noti e li mise da parte. Mentre spinavamo il pesce, ebbe luogo la conversazione che segue. Ho ritrovato il nastro in una cassetta di piombo fra le rovine del ministero della Determinazione molti anni dopo, e sono quindi in grado di trascriverla alla lettera.
AMBASCIATORE: Il dottor Hoffman sta per attaccare in grande stile la fortezza ideologica di cui attualmente, mio caro ministro, lei è il re.
(Questa fu una piccola sortita preliminare. L'emissario fece palpitare nella nostra direzione le ciglia cariche di ombretto ed emise una risatina.)
MINISTRO: Ha messo da tempo in chiaro le sue intenzioni in tal senso. Per quanto ci risulta, ha aperto le ostilità circa tre anni fa e ormai in città non vi sono più direzioni, mentre gli orologi non segnano più l'ora giusta.
AMBASCIATORE: SÌ, proprio come dice! Il dottore ha liberato le strade dalla tirannia delle direzioni, e ora possono andare dovunque vogliono. Ha liberato anche gli orologi, cosicché sono ora degli autentici arbitri del tempo e possono indicare a tutti qualsiasi ora vogliano. Sono particolarmente felice per gli orologi. Avevano delle facce così innocenti. Avevano facce con gli occhi opachi da mangiatori di angurie, da schiavi, e il dottore si è già dimostrato un Abramo Lincoln orologico. Ora vi libererà tutti, signor ministro.
MINISTRO: Dovrebbero forse essere le strade a governare la città?
AMBASCIATORE: Non crede che dovremmo smettere di usare ogni tanto la frusta con loro? Poverette, orientate per sempre dai piedi insensibili di coloro che le calpestano. Tempo e spazio hanno le loro prerogative, signor ministro, e queste, forse, hanno un valore maggiore di quel che abitualmente accordate loro. Tempo e spazio sono le viscere stesse della natura e quindi, ovviamente, ondulano alla maniera degli intestini.
MINISTRO: Vedo che lei ha l'abitudine di usare metafore.
AMBASCIATORE: Una metafora è un cartello indicatore.
MINISTRO: Voi avete fatto sparire tutti i cartelli indicatori.
AMBASCIATORE: Ma abbiamo popolato la città di metafore.
MINISTRO: Vorrei tanto sapere per quale motivo.
AMBASCIATORE: In nome della libertà, signor ministro.
MINISTRO: Che idea straordinariamente graziosa!
AMBASCIATORE: Non pensavo certo che quella risposta la soddisfacesse. E se le dicessi che eravamo impegnati a scoprire le infinite potenzialità dei fenomeni?
MINISTRO: Le suggerirei di trasferire le vostre operazioni in qualche altra sede.
(L' ambasciatore sorrise e sezionò una scheggia trasparente di sogliola.)
MINISTRO: Da qualche tempo ho l'impressione che il dottore intenda distruggere completamente qualsiasi traccia del tessuto sociale del mio paese, un paese di cui egli stesso è stato un tempo una delle massime glorie intellettuali.
AMBASCIATORE: Ne parla come se fosse un pezzo di famille rose!
(Il ministro ignorò questo garbato rimprovero.)
MINISTRO: Posso concludere solo che è spinto unicamente dalla malvagità.
AMBASCIATORE: Cosa, lo scienziato pazzo che distilla vendicative epidemie nelle sue provette? Se i suoi moventi fossero così semplici, a quest'ora, glielo assicuro, avrebbe distrutto completamente ogni cosa.
(Il ministro respinse il piatto. Capii che stava per parlare con il cuore in mano.)
MINISTRO: Ieri la cattedrale si è dissolta in uno spettacolo di fuochi artificiali. Immagino che la gioia infantile che molti hanno mostrato nel vedere i razzi, le girandole, le stelle multicolori e le meteore, sia ciò che mi ha colpito più di ogni altra cosa, perché la cattedrale era un capolavoro di sobrietà. Le è stata riservata la pira funebre più volgare che si sarebbe mai potuta escogitare. Eppure ha vegliato sulla città per duecento anni come il più conventuale degli angeli di pietra. Il tempo, quel tempo schiavizzato che lei disprezza, era stato tanto libero da lavorare alla pari con l'architetto; i capomastri impiegarono trent'anni per costruire la cattedrale e, a ogni anno che passava, l'invisibile azione modellatrice del tempo accentuava la toccante bellezza delle sue linee svettanti. Il tempo era implicito nella sua struttura. Per conto mio, non sono religioso, eppure la cattedrale era per me una specie di simbolo dello spirito della città. Era un artificio...
AMBASCIATORE: ... E infatti l'abbiamo rasa al suolo con feux d'artifice...
(Il ministro lo ignorò.)
MINISTRO: ... E la sua grandiosità, aumentando di anno in anno, man mano che diventava più imponente con il tempo, era stata programmata dall'ingegnosità degli architetti. Era un'illusione del sublime, e tuttavia la sua simmetria rispecchiava la simmetria della società che l'aveva prodotta. La città e, per estensione, lo stato, è un artificio di tipo simile. Una struttura sociale...
(A queste parole, l'ambasciatore inarcò le bellissime sopracciglia e picchiettò sui denti con le unghie laccate come in un divertito rimprovero per l'uso di termini simili.)
MINISTRO: (imperturbabile) Una struttura societaria è la più grande delle opere d'arte che l'uomo possa realizzare. Come l'arte più grande, è perfettamente simmetrica. Ha la struttura architettonica della musica, una simmetria impostale per comporre un gioco di tensioni che distruggerebbe l'ordine, ma senza il quale l'ordine è privo di vita. In questa armonia serena e astratta, tutto si muove con la solennità di ciò che è perfettamente prevedibile e...
(A questo punto il giovane lo interruppe spazientito.)
AMBASCIATORE: Guardatevi dalle astrazioni!
(Consumò stizzito le ultime briciole di pesce e tacque finché i camerieri non ebbero, sostituito i piatti servendo, con mia gioia e stupore, dei tournedos Rossini. L'ambasciatore respinse un'offerta di pommes allumettes. Quando riprese a parlare, la sua voce si era incupita.)
AMBASCIATORE: La differenza essenziale fra noi è di ordine filosofico, signor ministro. Per noi, il mondo esiste soltanto come mezzo per realizzare i nostri desideri. Fisicamente, il mondo in sé, il mondo attuale... il mondo reale, se preferisce... è fatto di creta malleabile; la sua struttura metafisica è altrettanto malleabile.
MINISTRO: La metafisica non m'interessa.
(I capelli dell'ambasciatore emisero a un tratto una fontana di luci azzurrine; diventato all'improvviso Carlotta Corday, puntò un pugnale contro il ministro.)
AMBASCIATORE: Il dottor Hoffman farà in modo che la metafisica diventi la sua occupazione!
(Il ministro continuò a tagliare la carne, con molta flemma.)
MINISTRO: Non credo.
(Le parole gli uscirono di bocca con un tale peso che mi sorprese che non sfondassero addirittura il tavolo. Rimasi profondamente impressionato dalla sua gravità. Spense perfino l'entusiasmo che avevo provato nello scovare una gemma nera di tartufo nella mia fetta di pâté, perché era la prima volta che sperimentavo il potere di una negazione assoluta. L'ambasciatore reagì visibilmente a questo cambiamento di tono. Se cessò all'istante di apparire come un angelo vendicatore, divenne anche all'istante meno ermafrodito.)
AMBASCIATORE: La prego di indicare il suo prezzo. Il dottore gradirebbe comprarla.
MINISTRO: No.
AMBASCIATORE: Mi consenta di suggerire una cifra allettante... cinque province; quattro reti di trasporti pubblici; tre porti; due metropoli e un'intera amministrazione civile.
MINISTRO: No.
AMBASCIATORE: Il dottore salirà ancora, sa.
MINISTRO: (con enfasi) No!
(L'ambasciatore fece spallucce e continuammo a gustare quella carne deliziosa finché non terminò e non ci venne servita l'insalata. Bevevamo vino rosso. La pelle del collo dell'ambasciatore era cosi luminosamente delicata che si poteva scorgere l'ombra ardente del borgogna scivolare giù per la gola dopo che aveva bevuto un sorso.)
AMBASCIATORE: La campagna del dottore è ancora alle fasi preliminari, e tuttavia ha già fatto di questa città un luogo atemporale, al di fuori del mondo razionale.
MINISTRO: Non ha fatto altro che scoprire dei mezzi per stregare l'intelligenza. Ha soltanto indotto una sospensione radicale dell'incredulità. Come nei primi tempi del cinema, tutti i cittadini saltano attraverso lo schermo per mettere le mani sulla donna nuda nella vasca da bagno!
AMBASCIATORE: E tuttavia le loro dita toccano realmente la carne.
MINISTRO: È quello che credono. Tutto ciò che toccano, però, non è altro che ombra dotata di sostanza.
AMBASCIATORE: Quale definizione perfetta della carne! Lei sa che sono soltanto un'ombra dotata di sostanza, signor ministro, ma se mi taglia, sanguino. Mi tocchi; io palpito!
(Certo non avevo mai visto un'apparizione che sembrasse più favolosamente itreale dell'ambasciatore in quel momento, né che sembrasse palpitare di una promessa più erotica. Il ministro, invece, rise.)
MINISTRO: Che lei sia reale o no, so per certo che non la sto inventando io.
AMBASCIATORE: Come mai?
MINISTRO: Non ho sufficiente immaginazione.
(Ora toccò all'ambasciatore ridere, e poi s'interruppe e rimase assorto per un attimo, come ascoltando una voce invisibile. Era un trucco puerile ma di notevole efficacia.)
AMBASCIATORE: L'offerta del dottore è appena salita a quattro teatri dell'Opera più le città di Roma, Firenze e Dresda, com'era prima dell'incendio. Ci aggiungeremo anche Johann Sebastian Bach come Kapellmeister,per suggellare l'accordo.
MINISTRO (in tono di congedo): Suvvia, basta! Siamo molto avanti con le nostre contromisure.
AMBASCIATORE: Sì, è vero. Abbiamo seguito con interesse considerevole i progressi del suo harem elettronico.
(Non avevo mai pensato al centro computer del ministro come a un harem elettronico. La similitudine mi sembrò ammirevole. Ma il ministro si morse il labbro.)
MINISTRO: Come?
(L'ambasciatore ignorò questa domanda.)
AMBASCIATORE: Siete occupati a inserire nel computer ogni cosa su cui riuscite a mettere le mani. Nel sacro nome della simmetria, la immettete in una serie di camicie di forza e la schedate con delle etichette, oh mio Dio, intollerabilmente tediose! Le sue prostitute meccaniche accolgono i clienti con un balbettio alieno del tutto estraneo alla lingua umana mentre lei, la tenutaria, lavora al loro fianco come abortista. Lei uccide l'immaginazione nel grembo materno, signor ministro.
MINISTRO: Qualcuno deve pur imporre delle restrizioni. Se io sono un abortista, il suo padrone è un falsario. Ci ha rovesciato addosso una massa di fenomeni contraffatti.
AMBASCIATORE: Lei considera gli oggetti iconografici... o meglio, le proposizioni con funzione simbolica... che vi trasmettiamo come un armamentario maligno ostile al genere umano, di cui ritiene questa città un microcosmo?
(Il ministro depose simmetricamente coltello e forchetta sul piatto vuoto e parlò con grande chiarezza).
MINISTRO: Sì.
(L'ambasciatore si abbandonò contro lo schienale della sedia e sfoggiò il più seducente dei sorrisi.)
AMBASCIATORE: Allora lei è in errore. Sono pure e semplici emanazioni dell'asimmetria, signor ministro, quell'asimmetria che lei nega. Il dottore sa come penetrare oltre le apparenze per lasciar affiorare le forme reali dalla trasparenza di ciò che è immanente. Lei non può distruggere la nostra immaginazione; può forse annientare le apparenze, ma l'essenza dell'asimmetria non si può né creare né distruggere... soltanto cambiare. E se lei disintegra le immagini con i laser e i raggi infrarossi, esse non faranno altro che tornare ai loro elementi costitutivi e ben presto si ripresenteranno sotto un'altra forma che lei stesso avrà reso ancor più arbitraria con la sua interferenza. Il dottore sta per svelare l'intera verità della cosmogonia. La prego di aspettare con pazienza. Non ci vorrà ancora molto.
(Ci portarono frutta e formaggio. L'ambasciatore tagliò per sé una fettina di brie.)
AMBASCIATORE: Lei si rende conto, signor ministro, che molto presto la morte camminerà, sotto innumerevoli travestimenti, per queste strade affollate.
MINISTRO: Lo fa già.
(L'ambasciatore si strinse nelle spalle, come per dire: "Non ha ancora visto niente". Spiccò dal grappolo d'uva un gruppetto di chicchi.)
AMBASCIATORE: È disposto a capitolare?
MINISTRO: Quali sono le condizioni del suo padrone?
AMBASCIATORE: Autorità assoluta di instaurare un regime di liberazione totale.
(Il ministro spense la sigaretta e tagliò una porzione di Stilton. Dalla fruttiera, scelse una mela Cox's Orange Pippin.)
MINISTRO: Non capitolerò.
AMBASCIATORE: Benissimo. Si prepari a un lungo, immenso e deliberato sconvolgimento dei sensi. Mi risulta che avete infranto tutti gli specchi.
MINISTRO: È stato per impedire che producessero immagini.
(L'ambasciatore estrasse di tasca uno specchietto e lo porse al ministro, in modo che vedesse il proprio viso. Il ministro si coprì gli occhi e gridò, ma riacquistò quasi subito la compostezza e riprese a sbucciare la mela. Le pareti del mondo non crollarono e il sorriso felino dell'ambasciatore non s'incrinò. Il pasto si concluse. L'ambasciatore rifiutò il caffè, ma, con un ritorno all'atteggiamento iniziale de haut en bas, si alzò per congedarsi. Quando lasciò il ristorante, tutti i fiori in tutti i vasi persero i petali, dal primo all'ultimo. Io spensi il registratore; d'ora in poi devo contare sulla mia memoria.)
Ordinai per me del caffè e il ministro prese il solito tè nero, anche se questa volta versò nella tazza il contenuto di un bicchiere panciuto di cognac. Volle ascoltare la registrazione della conversazione e poi rimase immerso nei suoi pensieri per un po', avvolto in una nuvola di fumo di sigarette.
«Se fossi religioso, Desiderio» osservò infine «direi che siamo appena scampati a un incontro con Mefistofele.»
Il ministro mi era sempre apparso profondamente religioso.
«Lascia che ti racconti una parabola» continuò. «Un uomo fece un patto con il diavolo. La condizione era questa: l'uomo avrebbe consegnato la sua anima non appena Satana avesse assassinato Dio. "Niente di più semplice" disse Satana, e si puntò una rivoltella alla tempia.»
«Lei assegna al dottor Hoffman il ruolo di Dio o di Satana?»
Il ministro sorrise.
«Come suggerisce la parabola, i ruoli sono intercambiabili» rispose. «Vieni. Andiamo.»
Ma, quanto a me, ero sconcertato, perché certi timbri nella voce del giovane avevano ridestato in me il sogno della notte precedente, e come se la sua voce avesse toccato quelle note misteriose che si ritiene debbano incrinare il cristallo, una fine ragnatela di crepe era apparsa tutta un tratto sulla superficie della mia indifferenza. Il giovane mi affascinava. Mentre il ministro firmava il conto, vidi che il singolare ambasciatore aveva lasciato dietro di sé, sulla sedia che aveva occupato, un fazzoletto dello stesso pizzo finissimo del tessuto della sua camicia. Lo presi in mano. Lungo l'orlo, ricamato in uno svolazzo di seta così bianca da essere virtualmente invisibile, c'era quel nome che finora avevo visto solo in sogno: Albertina. Il canto ieratico del cigno nero mi risuonò di nuovo nelle orecchie; barcollai come sul punto di svenire.
Il ministro allungò al capo cameriere una lauta mancia e accese una nuova sigaretta mentre mi guidava, tenendomi per il braccio, nel pomeriggio equivoco, dove la luce del sole si faceva già più spessa.
«Desiderio» disse «ti piacerebbe fare un viaggetto?»
CAPITOLO 2
La dimora della mezzanotte
Il ministro si aggrappava alle pagliuzze, ma vi si aggrappava con tenace determinazione.
Quella mattina stessa, mentre sottoponevo ai test la lettera dell'ambasciatore in un'altra sezione del ministero della Determinazione, i computer del ministro lo avevano sorpreso registrando un'analogia significativa. Avevano segnalato alcune coincidenze nelle attività del proprietario di un certo peep-show che era rimasto aperto sul molo della località turistica di S. per tutta l'estate e che ora dava segno di volercisi accampare per l'inverno. A me sembrava un indizio abbastanza tenue, quasi indegno dell'importanza che il ministro gli attribuiva e non certo sufficiente a giustificare la mia nuova promozione. Ciò nonostante, promosso fui; fra il tè e l'ora di pranzo, diventai l'agente speciale del ministro, con la missione di assassinare il dottor Hoffman nel modo meno chiassoso possibile, ammesso che riuscissi a trovarlo.
Ero stato scelto per la missione in quanto: a) ero sano di mente; b) potevo essere lasciato senza rimpianti alla mia sorte e c) i computer del ministro avevano deciso che la mia abilità nel risolvere i cruciverba comportava una predisposizione ai processi del pensiero analogico che avrebbe potuto guidarmi dal dottore mentre tutti gli altri avevano fallito. Penso che il ministro stesso mi giudicasse una specie di computer ambulante. Con tutto ciò, malgrado la voce incoraggiante con la quale mi augurò buon viaggio, intuii che ero una speranza piuttosto tenue.
I computer mi costruirono un'identità abbastanza solida da consentirmi di superare il controllo ai posti di blocco della polizia di Determinazione, poiché ero un agente segretissimo. Dovevo presentarmi come ispettore di Veracità di prima classe. Nella cittadina di S., un centinaio di chilometri più a nord sulla costa, dovevo compilare un rapporto speciale sul misterioso caso del sindaco, che era scomparso qualche tempo prima. L'imperscrutabile attività della burocrazia continuava, guerra o non guerra, e le mie credenziali burocratiche erano impeccabili. Ero munito di una piccola automobile, un corredo di buoni per la benzina, un arsenale da tasca di rivoltelle e così via. Preparai una valigetta con qualche taccuino e una camicia. Non portai con me né ricordi né oggetti di valore affettivo perché non ne possedevo. Anche se non sapevo quando, o se, l'avrei rivista, non mi curai di dire addio alla mia squallida stanza. Lasciai la città la mattina dopo; passando davanti al ministero della Determinazione, vidi che sul muro era apparso uno slogan. Diceva: IL DOTTOR HOFFMAN PISCIA FULMINI. Partii in macchina sotto un temporale spaventoso. Non era neppure l'ora di colazione, ma il cielo era così nero che un'oscurità innaturale riempiva le strade che quel giorno, come per affrettare di proposito la mia partenza, erano tornate alle forme che avevo sempre conosciuto, strade senza magia né sorpresa, strade noiose come possono essere soltanto quelle di casa propria.
Non avevo molte speranze di tornare a rivederle: e non credevo neppure che la città sarebbe sopravvissuta a lungo dopo la mia partenza, non solo perché avevo sempre sentito oscuramente di essere uno degli invisibili baluardi di razionalità che avevano contribuito a tenerla in piedi così a lungo, ma perché sembrava inevitabile che presto sarebbe crollata. Eppure non provai alcuna nostalgia quando, dopo aver abbreviato gli interminabili negoziati con la polizia grazie al dono di parecchie stecche di sigarette del ministro, imboccai la strada che portava al nord. Suppongo sperassi che, se la città fosse caduta, almeno avrebbe seppellito l'ambiente che generava la mia noia inestinguibile. Non c'era nulla nel gran mucchio di intonaco, mattoni e pietra che mi lasciavo alle spalle, per cui sentivo il benché minimo attaccamento, tranne il ricordo di un certo sogno misterioso, e questo lo portavo via con me stesso. E, se provai una certa eccitazione man mano che i chilometri si snodavano sotto di me, era per via di quel sogno e del nome, che sembrava racchiudere tre entità magiche, la donna di vetro, il cigno nero e l'ambasciatore. Il nome era un indizio che puntava verso un essere vivente che stava dietro i trucchi da illusionista, poiché trucchi del genere implicano la presenza di qualcuno che li pratichi. Io nutrivo un'ambizione: strappare quella camicia a pieghine per scoprire se sotto di essa si gonfiavano i seni di una donna vera; e se intorno al collo portava un collare d'oro con il nome ALBERTINA inciso sopra.
E allora? Sarei caduto in ginocchio per adorarla.
Sotto tutta quell'indifferenza, ero un giovanotto incredibilmente romantico, ma, fino a quel momento, le circostanze non mi avevano mai offerto un'occasione abbastanza grandiosa per esprimere la passione repressa. Avevo optato per il gelido riserbo del formalismo solo perché vi ero stato spinto dalla dura necessità. Quello, vedete, era il motivo per cui ero così tediato.
L'aspetto della campagna non era cambiato. I campi piatti di ortaggi intorno alla capitale si stendevano, come prima, fino all'orizzonte e sembravano produrre ancora banali radici e tuberi e nient'altro. I villaggi avevano le imposte chiuse per tener fuori la pioggia, ma per il resto sembravano dispettosamente contadini come sempre. Perfino gli spaventapasseri sembravano semplici spaventapasseri. La strada in se stessa era l'unica vittima, o almeno la prima, perché il volume del traffico automobilistico si era ridotto quasi a zero e già vigorosi germogli di erbe e fiori spuntavano dalle crepe nell'asfalto dove nessuna buca era stata riparata, cosicché si aprivano un po' dovunque pozze d'acqua bruna. Il viaggio richiese qualche ora in più nel necessario; raggiunsi la meta nel pomeriggio, mentre un magnifico arcobaleno s'inarcava sulla cittadina e, insieme con un chiarore nel cielo dalla parte del mare, preannunciava la fine del temporale. Mentre entravo nei sobborghi, la pioggia dapprima cominciò a cadere obliqua e poi cessò del tutto. Spuntò il sole e dai marciapiedi prese a salire un lieve vapore.
S. era una cittadina vivace, gradevole, dalle tinte pastello, che odorava di pesce morto e flanella umida, pulita come se il mare abrasivo la sfregasse due volte al giorno. Prima della guerra, le famiglie venivano d'estate dalla città per trascorrere due settimane in pensioni dove gli zerbini erano sempre pieni di sabbia, i corridoi ingombri di secchielli e palette. C'era un pontile fatto di volute di ferro così sottili da sembrare lo scheletro di un enorme uccello o un disegno fatto con il pennino fine e l'inchiostro di china sulla carta celeste pallido del mare calmo. I pescatori vivevano all'altro capo della spiaggia in ridenti cottage imbiancati a calce e sommersi dal rigoglio di rose di quell'estate e appendevano le reti ad asciugare su pali pittoreschi e primordiali, zavorrandole agli angoli con biglie di vetro verde scuro. Era la fine di agosto e le botteghe offrivano in vendita pietre rosate, cartoline a colori, zucchero filato, cappelli di paglia e tutte le cianfrusaglie tipiche delle vacanze, ma, benché tutte le porte fossero aperte, non riuscivo a vedere nessun bottegaio dentro, dietro i banchi, e la città intera era assolutamente deserta.
Lungo la passeggiata a mare, ombrelloni a strisce creavano pozze d'ombra sui tavolini vuoti ai quali nessuno era seduto a mangiare gelati, sebbene vi fossero parecchi piattini macchiati di tracce residue e perfino bicchieri pieni per metà di bibite rosa, verdi e arancio in cui il ghiaccio non si era ancora sciolto e le cannucce erano ancora incavate all'estremità dalla pressione delle labbra. La pallida distesa di sabbia era deserta, fatta eccezione per alcuni uccelli marini che camminavano ondeggiando, e notai un cadavere che giaceva là dove la sabbia lo aveva lasciato, ignorato da tutti se non da un nugolo di mosche. Al cancelletto girevole del pontile non c'era nessuno a ritirare la moneta. Alcune attrazioni erano chiuse, ma qui ancora una mezza dozzina di palline da ping-pong saltellava sui getti d'acqua e i fucili erano disposti per invitare i tiratori inesistenti. Per quanto il letto fosse pronto per accogliere la signora, lei era svanita. Eppure gli altoparlanti diffondevano una musica allegra e il posto non sembrava abbandonato. Era come se l'intera popolazione della città se la fosse svignata da qualche parte, invitata a presenziare a qualche avvenimento per il quale io solo non avevo ricevuto un invito, e dovesse tornare al suo posto di lì a cinque minuti. Una brezza di mare faceva sventolare le bandiere multicolori. Oltrepassai la tenda di un indovino e un'altra baracca con l'odore degli hot dog che cuocevano da soli in un pentolone di stagno pieno d'acqua bollente e poi, con facilità assai sospetta, trovai la mia prima preda, il peep-show.
Era esattamente la copia a colori del tendone che avevo visto in versione monocromatica nel fascicolo del ministero: colorato ma sbiadito, rimasto troppo a lungo esposto alle piogge annuali, una scatola sbilenca di tela a strisce rosa con la falda della porta sollevata e fissata all'indietro da una corda sfilacciata. Un cartellone ingiallito dai caratteri antiquati annunciava che all'interno erano in attesa LE SETTE MERAVIGLIE DEL MONDO A TRE DIMENSIONI e chinai la testa per entrare nella caverna calda e semibuia. Era illuminata solo dai raggi del sole pomeridiano, che filtravano dalle numerose brecce nella struttura. Quando entrai, un gabbiano sorpreso si levò con un frenetico sbatter d'ali da un posatoio sopra una ruota di ferro e volò in circolo all'interno prima di trovare l'uscita. A quel rumore, un vecchio addormentato, la cui sagoma era stata celata fino a quel momento dalle fitte ombre brune si svegliò fra grida e imprecazioni. Si sentì il tintinnio e il lieve rumore sordo di una bottiglia che rotolava e l'aria si riempì di esalazioni d'alcool puro.
«Non c'è mai pace?» domandò il vecchio, sollevandosi come una foca da un mucchio frusciante di paglia e subito, con un gemito, ricadendo all'indietro. Era il primo essere vivente che vedevo da quando ero arrivato in città, e non era altro che un relitto verminoso seminascosto da una bianca cascata di capelli. Non gli restava neanche un dente in bocca e una barba macchiata e impastata di sporcizia gli cresceva rada sulla parte inferiore del viso, mentre la parte superiore era coperta da un paio di occhiali con montatura di metallo e lenti verdi, di cui la sinistra era incrinata nel mezzo. Portava i resti di un paio di pantaloni a righe e una giacca da smoking, residuo forse di giorni più prosperi, e niente camicia: solo un panciotto sporco e strappato. Era a piedi nudi; le unghie annerite si erano allungate fino a sembrare artigli. Brancolò per alcuni istanti prima di trovare la presa su una delle curiose macchine che affollavano la tenda e, aggrappandosi a essa, si sorresse quel tanto che bastava per alzarsi. Guardò nella mia direzione, ma senza fissare me; scrutò tutta la tenda come nel tentativo di localizzarmi e poi scosse stancamente la testa ribelle.
«Anche se questa non è Gaza, sono lo stesso senza occhi» disse, e capii che era cieco.
«Se lei è un cliente» aggiunse «metta per favore venticinque centesimi nel contenitore che troverà predisposto a tale scopo sul tavolino da tè di fianco alla porta e faccia il pieno delle meraviglie del mondo. Ma in caso contrario» aggiunse, e la sua voce cominciò a spegnersi «in caso contrario... In ogni caso, chiunque lei sia, mi restituisca per favore la bottiglia.»
Rotolando al centro del pavimento, la bottiglia aveva rovesciato tutto il contenuto.
«Non ne resta neanche una goccia» lo avvertii nel restituirgliela. Lui la scosse per sentire se c'era uno sciacquio, ne annusò il collo con voluttà e poi, allungandosi all'indietro, scostò le pareti di tela e la gettò nel mare sottostante, dove affondò gorgogliando.
«Ho bevuto abbastanza dal calice dell'umiliazione, comunque» disse. «La prego di pagare il quarto di dollaro, fare quello che le pare e andarsene.»
Ricadde sul pagliericcio e non emise altri suoni che il mormorio roco del suo respiro. Il piattino conteneva due bottoni da giacca, una conchiglia e una moneta che identificai come un sen giapponese, da tempo fuori corso, ma vi deposi lo stesso un quarto di dollaro. Le macchine erano vecchie, di ghisa rugginosa decorata con impressioni di cupidi, aquile e nodi d'amore. Ciascuna aveva le dimensioni e la forma di un vecchio forno all'antica e, sul davanti, un paio di oculari sporgenti da lunghe aste cave. Esaminai una dopo l'altra tutte le attrazioni. Dentro ciascuna, sotto la scena rappresentata, c'era un cartello, scritto goffamente in caratteri maiuscoli, che ne indicava il titolo.
Attrazione Numero Uno: SONO GIÀ STATO QUI.
Le gambe di una donna, sollevate e aperte come se fossero pronte ad accogliere un amante, formavano un arco trionfale curvilineo. I piedi erano ornati da scarpette di vernice nera con il tacco a spillo. La sezione anatomica, fatta di cera rosea con due fossette dietro le ginocchia, non ammetteva la possibilità dell'esistenza di un torso. Il pelo pubico ricciuto s'innalzava a formare una specie di stemma araldico sopra il proscenio circolare racchiuso tra le gambe, ma sebbene i peli fossero stati inseriti uno per uno allo scopo di ottenere il massimo grado di verosimiglianza, l'effetto generale era di sbalorditiva artificiosità. Le smerlature rosso cupo e viola che circondano la vagina facevano da cornice al foro perfettamente rotondo attraverso il quale l'osservatore scorgeva un umido e lussureggiante paesaggio interno.
Laggiù si apriva all'infinito davanti agli occhi il panorama miniaturizzato ma irresistibile di una foresta semitropicale dove frutti sbalorditivi pendevano dagli alberi, mentre dai calici punteggiati e variegati di fiori enormi come mulini a vento stillavano profumi di intensità così eccezionale da diventare visibili sotto forma di una lieve rugiada purpurea. Piccoli uccelli iridescenti trillavano in silenzio sui rami; animali di forme e colori delicati, fra cui unicorni, giraffe e leoni erbivori, brucavano ranuncoli e margherite fra l'erba di un verde impossibile; farfalle, libellule e innumerevoli insetti smaltati svolazzavano, saettavano o guizzavano fra la vegetazione, così che tutto era in perpetuo movimento e inoltre la vegetazione stessa si trasformava di continuo. Mentre stavo a guardare, la forza repressa della dolce linfa interna fece esplodere un diospiro e la buccia spaccata lasciò sfuggire uno sciame di uccelli canori color arancio fulvo. Un germoglio allungato sul punto di schiudersi dovette cambiare idea, perché si tramutò in una fragola anziché in una ninfea. Un pesce saltò fuori del fiume, divenne un coniglio bianco e fuggì saltellando.
Pareva che l'inverno e i venti freddi non sfiorassero mai quelle regioni luminose di oblio, né increspassero la superficie del fiume lucente che serpeggiava tranquillo lungo la valle centrale. L'occhio dell'osservatore seguiva il corso del fiume a monte, verso la sorgente, e così vedeva per la prima volta, dopo alcuni momenti di osservazione deliziata, i merli di un castello velato dalla nebbia. Più a lungo si osservava il castello, più diventava sinistro, come se le viscere di granito ospitassero altrettante camere di tortura dello Chàteau di Silling. Le altre macchine contenevano i seguenti quadri:
Attrazione Numero Due: GLI ETERNI PAESAGGI DELL'AMORE.
Quando guardai dalle finestrelle della macchina, tutto ciò che vidi furono due occhi che ricambiavano il mio sguardo. Ogni occhio misurava quasi un metro da un'estremità all'altra, completo di palpebra e dotto lacrimale, ed era sospeso nell'aria senza alcun sostegno visibile. Come i peli pubici del modello precedente, le ciglia erano state inserite scrupolosamente una per una in stretti solchi di cera rosea, ma quella volta gli artigiani avevano raggiunto un grado di realismo che accentuava in modo inquietante la natura sintetica dell'immagine e che risultava estremamente fastidioso. Il bianco degli occhi era delicatamente venato di rosso per creare un effetto simile a quello dei marmi preziosi usati in Italia nel tardo barocco per realizzare gli altari nelle cappelle dei potenti, e le iridi erano semplici anelli di vetro di bottiglia marrone scuro, mentre nelle pupille potevo vedere, riflessi in due dischi di specchio, i miei stessi occhi, enormemente ingranditi dalle lenti della macchina. Dato che le mie pupille, a loro volta, riflettevano i falsi occhi di fronte a me, mentre questi riflettevano di nuovo quelle immagini riflesse, mi resi conto ben presto che stavo osservando un modello di regressione all'infinito.
Attrazione Numero Tre: IL PUNTO D'INCONTRO FRA AMORE E FAME.
Su un piatto di cristallo del tipo in cui si servono i dessert erano disposte due porzioni perfettamente sferiche di gelato alla vaniglia, ciascuna sormontata da una ciliegia in modo tale che la somiglianza con due seni femminili era quasi perfetta.
Attrazione Numero Quattro: TUTTI SANNO A CHE SERVE LA NOTTE.
Qui, in una pozza di sangue dipinto, giaceva una figura di cera che riproduceva il corpo senza testa di una donna mutilata. Indossava solo i resti di un paio di calze scure a rete e un reggicalze strappato di lucido lastex nero. Le braccia sporgevano rigide ai lati e ancora una volta notai la cura amorevole con cui gli artigiani che l'avevano costruita avevano simulato i ciuffetti di peli sotto le ascelle. Il seno destro era stato in parte sezionato e restava aperto, rivelando due superfici di carne vivaci e false quanto i quarti di manzo di gesso appesi nelle macellerie-giocattolo, mentre il ventre era coperto da una sorta di vernice rossa che riusciva ad apparire sempre umida e dalla vernice sporgeva l'impugnatura di un coltello enorme, mantenuto sempre vibrante dall'azione (probabilmente) di qualche meccanismo a molla.
Attrazione Numero Cinque: TROFEO DI UN CACCIATORE NELLE FORESTE DELLA NOTTE.
Una testa - che si voleva far credere, probabilmente, asportata alla vittima del precedente quadro vivente - era sospesa in aria, ancora una volta senza fili o ganci visibili che rivelassero com'era mantenuta in tale posizione. Dal punto in cui era stata recisa stillavano lente gocce di sangue artificiale, plop, plop, plop,ma il recipiente in cui cadevano era invisibile allo spettatore. Una lussureggiante parrucca nera ricadeva intorno al volto pallido, che aveva un'orribile espressione rassegnata. Gli occhi erano chiusi.
Attrazione Numero Sei: LA CHIAVE DELLA CITTÀ.
Una candela della forma di un pene di dimensioni esagerate, con tutto lo scroto, in uno stato di accentuata tumescenza. Il prepuzio grinzoso era ritratto in modo da scoprire in tutta la sua sconveniente integrità il glande ingrossato, rosso come il sole al tramonto, nonché una porzione della verga stessa e, nella minuscola fessura al centro, in cui doveva essere stato inserito uno stoppino, ardeva una fiammella chiara. Sotto gli occhi dell'osservatore, la candela s'inclinava in avanti, ruotando sui testicoli, e puntava verso di lui come un dito accusatore.
Mi colpì una strana idea: che dovesse rappresentare il pene del ministro.
Attrazione Numero Sette: MOTO PERPETUO.
Come prevedevo, un uomo e una donna erano impegnati nell'atto sessuale su un letto di crine di cavallo nero. Le figure, anche in questo caso eseguite alla perfezione nella cera, sembravano modellate in un pezzo solo e, grazie a un meccanismo a orologeria nascosto nel letto, oscillavano avanti a indietro in continuazione. L'accoppiamento aveva un aspetto fatale, inevitabile. Non ci si poteva figurare un cataclisma abbastanza violento da separare le figure allacciate, e neppure si poteva concepire un inizio nel passato, perché erano unite così saldamente che pareva fossero state plasmate in quel modo al principio del mondo e, bloccate in parallelo, dovessero continuare così all'infinito. Non erano tanto erotici quanto patetici, poveri pellegrini del desiderio che non si scostavano mai di un millimetro dal loro interminabile pellegrinaggio. Il viso dell'uomo era fuso con il collo della donna e quindi non si vedeva, ma la testa della donna era costruita in modo da oscillare nell'articolazione del collo e, quando girava da una parte all'altra, il viso era visibile a intermittenza.
Riconobbi subito quel viso, anche se era irrigidito nella smorfia tormentata dell'orgasmo. Rimasi a fissarlo per un certo tempo. Era il viso bellissimo dell'ambasciatore del dottor Hoffman. Il vecchio interruppe le mie fantasticherie. Aveva una voce stridula come quella di un gallo.
«Nel piattino c'è abbastanza denaro per comprarmi una bottiglia?» domandò.
«Le offrirò da bere io con piacere» risposi.
«Grazie; grazie mille» replicò lui, e si alzò in piedi penosamente. Brancolò nell'angolo finché non scovò un berretto a visiera del genere portato da Lenin e dai bolscevichi. Quando se lo fu piazzato sulla testa con spavalderia, cominciò un'altra ricerca, ma ben presto trovai per lui il bastone bianco.
Il pontile si era popolato. Un ragazzo vestito di cenci con il moccio incrostato nei solchi sotto il naso stava dietro il banco del tiro a segno frugandosi pigramente l'orecchio con uno stecco e una donna gonfia e sciatta, in sottoveste di rayon, con i capelli tinti color albicocca, sbadigliava e si grattava le natiche all'ingresso della tenda dell'indovina. Tre bambini stavano aggrappati con i piedi alle balaustre stringendo la canna da pesca in una mano e tenendo con l'altra barattoli di marmellata pieni d'acqua, per mezzo di maniglie di spago legato intorno al bordo. Anche la spiaggia presentava il solito panorama quotidiano delle vacanze, cani saltellanti, bambini che costruivano castelli di sabbia e una gran quantità di pelle esposta al sole. Ma tutti quei bagnanti ritardatari avevano l'aria vacua e sbadigliante di chi si è appena svegliato da un sonno profondo e a volte camminavano a passi incerti, senza motivo, lanciandosi in una corsa incespicante e poi bloccandosi altrettanto bruscamente per guardare attorno a sé con occhi vuoti e sbalorditi, oppure, voltandosi a parlare con un compagno, s'interrompevano, a bocca aperta, come se non lo riconoscessero più. E per essere un così gran numero di persone, facevano pochissimo rumore, come se sapessero di non avere nessun diritto esistenziale di stare lì.
Il proprietario del peep-show era cieco e zoppo, ma certo sapeva orientarsi nella città e mi guidò con istinto infallibile verso un piccolo bar così addentro al quartiere dei pescatori che le strade non si curavano più di salvare le apparenze e si adagiavano riconoscenti nello squallore. Ci sedemmo a un tavolino con il piano di marmo e, senza aspettare l'ordinazione, un negro ci portò due bicchieri dell'alcool puro che fra i poveri passa per acquavite. Lasciò la bottiglia sul tavolo. Il proprietario del peep-show vuotò il bicchiere tutto d'un fiato.
«Lo scopo del mio spettacolo» osservò «è illustrare la differenza fra dire e mostrare. I cartelli dicono. Le immagini mostrano.»
Gli riempii di nuovo il bicchiere e lui mi ringraziò sporgendosi oltre il tavolo per toccarmi attentamente il viso con i polpastrelli deformati, come per prendere le misure prima di scolpire il mio ritratto.
«Chi l'ha mandata?» chiese bruscamente.
«Sono venuto a indagare sulla scomparsa del sindaco» risposi con cautela.
«Ah, sì» disse. «Se ne sta seduta come Mariana nella masseria, povera ragazza! Mary Anne, la bella sonnambula.»
Bevve di nuovo, più lentamente, e poi osservò: «La mia vita non è che uno straccio in balia del vento.»
Detto questo, tacque. Avrei scoperto in seguito che parlava solo per fare affermazioni staccate, spesso sentenziose, di solito imbevute di malinconia, amarezza, autocommiserazione, o tutt'e tre insieme. Io bevvi in silenzio l'eau de vie e aspettai che parlasse di nuovo.
Riprese la parola dopo il terzo bicchiere.
«Non ero Mendoza. Non ho mai avuto quell'onore.»
«Chi era lei, allora?»
Divenne schivo e misterioso.
«Un tempo, ero un uomo davvero importante. Addirittura un grand'uomo, si potrebbe dire. Un tempo avevano l'abitudine di scappellarsi, quando passavo per strada, e di mormorarmi frasi accattivanti e i baristi erano contenti di avermi come cliente, sì!, fieri e contenti! Invece di tollerarmi a fatica.»
Il barista, che doveva aver sentito questa tirata parecchie volte, fece balenare i denti in un sorriso come per creare un clima di complicità. Io versai dell'altro alcool nel bicchiere del vecchio.
«Dicevano sempre: "Siamo onorati che lei ci faccia l'onore della sua presenza, professor..."» E poi s'interruppe, come se capisse di avere già detto troppo, il che era verissimo: mi aveva fornito le lettere principali di un indizio e io dovevo solo riempire le caselle bianche. Feci un'ipotesi di partenza.
«Il più grande successo che un insegnante possa vantare è che l'allievo lo superi.»
«Allora perché mi ha umiliato così?» piagnucolò il vecchio, e capii all'istante che aveva insegnato fisica elementare al dottor Hoffman tanti anni prima all'università. Quando finì il quinto bicchiere, le ultime tracce di discrezione svanirono.
«Non mi permette nemmeno di lavorare nei laboratori. Mi ha dato un campionario di modelli e mi ha lasciato andare, mi ha mandato a vagabondare, su e giù, qua e là, avanti e indietro, spingendo il carretto a mano... inciampando nei sassi e facendomi marcire le budella con liquori schifosi...»
«Il suo campionario di modelli?»
«Ce ne sono molti altri nel sacco» rispose lui. «Decine e decine di campioni. Decine e centinaia e migliaia di campioni. Si direbbe che si riproducano là dentro mentre io non faccio altro che metterli nelle macchine, non è vero? e attaccarci un cartello, e la gente a volte paga, a volte no, e a volte strillano e altre volte ridacchiano e a volte la polizia mi scaccia dalla città e io riprendo il cammino, spingendo il carretto. E le cose sono peggiorate, da quando ha cominciato a mettere in pratica le sue idee. Non c'è più denaro da sprecare per le dimostrazioni disgustose anche se didattiche di un vecchio; si può benissimo fare in casa. Fra poco dovrò far pagare uno spillo per lo spettacolo, o un barattolo vuoto, o una cartina per le sigarette. E chi vorrà accettare simili cianfrusaglie in cambio di alcool, allora? Quando sorgerà quel giorno, il povero pettirosso dovrà ficcare il capino sotto l'ala, misera creatura, e fingere di sentire caldo, sì!»
«Ma» aggiunse, versandosi il settimo bicchiere «il singolare privilegio di diventare Mendoza non mi è stato mai concesso. Mi è stato permesso di operare delle trasformazioni su me stesso, e se mi guarda può vedere come ci sono riuscito bene.»
Una lacrima scivolò di sotto gli occhiali, cosicché capii che aveva ancora gli occhi, anche se erano ciechi, e mi parve di ricordare un ritaglio d'archivio: il vecchio professore del dottor Hoffman era rimasto ferito in un incidente di laboratorio molti anni prima. Giudicai che fosse ormai abbastanza ubriaco; restituii la bottiglia al barista.
«Mi piacerebbe ucciderlo» disse il proprietario del peep-show. «Se avessi dieci anni di meno, andrei al castello per ucciderlo.»
«Conosce la strada per il castello?»
«Basta che segua il mio naso» rispose.
Ma poi un gallo cantò e il suono colpì il vecchio in modo singolare. Si drizzò per ascoltare attentamente; l'animale cantò una seconda volta e poi una terza.
«Scompari dalla mia vista, Satana!» strillò il vecchio.
A quelle parole, mi colpì in pieno viso con il bastone con tanta violenza che mi spaccò la fronte; il sangue mi inondò gli occhi e, quando fui di nuovo in grado di vedere, il vecchio era sparito. Mi precipitai di nuovo al pontile ma, sebbene potesse soltanto zoppicare, non riuscii a scorgerlo lungo la strada e quando raggiunsi il punto in cui avevo trovato la tenda, naturalmente era sparita anche quella. Così mi diressi verso il municipio, per compiere il mio dovere ufficiale.
Le volute e le ghirlande di stucco sulla facciata pomposa del municipio si stavano sbriciolando come pan di Spagna e tutte le finestre erano schermate da imposte verdi, ma il massiccio portone di mogano si aprì abbastanza facilmente e, anche se i miei passi sollevarono sbuffi di polvere dal tappeto di felpa marrone e se gran parte degli uffici erano vuoti - a parte le ragnatele che si stendevano dal calamaio al portapenne velando i ripiani delle scrivanie - un impiegato uscì sbadigliando dall'anticamera dell'ufficio del sindaco per salutarmi. Braccialetti di metallo gli tenevano alzate le maniche della camicia, in modo da lasciare scoperti i polsi per lavorare; era stato nominato responsabile.
L'ufficio stesso del sindaco era un mausoleo. Era stato riordinato, dopo la sua scomparsa, cosicché non c'erano documenti o fascicoli in vista: avevano accostato con tanto zelo la pomposa sedia intagliata alla scrivania scrupolosamente spoglia, da dare l'impressione di voler negare ogni accoglienza a qualsiasi corpo futuro. Il tampone di carta assorbente rosa del sindaco era ricoperto da uno spesso velo di muffa e la caraffa dell'acqua, sormontata da un bicchiere rovesciato, aveva i fianchi panciuti appesantiti da strati di polvere. I ragni infaticabili avevano tessuto un baldacchino sopra una fotografia del defunto Presidente appesa alla parete. L'impiegato aprì un armadio rivelando una brocca di cristallo piena a metà di sherry sindachesco, ormai viscoso come melassa, tastò un ripiano inferiore ed esibì il soprabito con il collo di pelliccia che il sindaco aveva lasciato la mattina nevosa in cui era scomparso. Le tasche contenevano un solo guanto appallottolato e un fazzoletto sporco, niente di significativo.
Ma mi bastò una brevissima ricerca negli altri uffici per avere la prova che il proprietario di un certo peep-show aveva presentato una richiesta ufficiale per aprire un baracchino sull'imbarcatoio nel precedente mese di aprile; il modulo, firmato con una croce incerta, aspettava ancora il timbro ufficiale, quindi il mio decrepito amico aveva fatto evidentemente di testa sua e aperto bottega senza curarsene. Era un nesso, se non altro. Sottrassi il modulo per riportarlo al ministro, presi nota del nome dell'impiegato e controllai brevemente il suo coefficiente di realtà con le informazioni che avevo. Appariva accettabile. Poi gli chiesi di telefonare in casa del sindaco, dove la figlia viveva ancora in compagnia di una governante. Ottenemmo la linea dopo appena sette o otto minuti: a quanto pareva, i servizi funzionavano ancora in modo accettabile, anche se l'impiegato mi disse che il centralino non poteva fare né ricevere chiamate al di fuori degli immediati dintorni, e anche se queste chiamate locali erano continuamente interrotte da voci che parlavano in lingue sconosciute. Dopo un fitto scambio di pettegolezzi cittadini con la casa del sindaco, mi assicurò qualche notte di ospitalità laggiù, alla fonte probabile del mio mistero burocratico.
«È tutto molto in disordine da quando il sindaco si è allontanato» mi disse in tono incerto. «Soltanto la vecchia e la, ehm, ragazza...»
Qualcosa nella sua voce lasciava supporre una stranezza nella ragazza. Drizzai le orecchie, annotai in fretta le indicazioni che mi diede e risalii in macchina. Ormai era quasi sera e poiché mi fermai lungo la strada per cenare con un pasticcio di carne in un caffè infestato dalle mosche - troppo squallido per essere illusorio - non raggiunsi la casa se non quando fu quasi buio. Si trovava un po' fuori città, in fondo a un vecchio viottolo di campagna pieno di solchi, dove non c'erano altre costruzioni tranne una stalla abbandonata. Il cielo era dell'azzurro tenero e trasparente di una sera di tarda estate e una pallida imitazione della luna era sospesa su un boschetto di abeti anche se i gigli tigrati del sole calante rosseggiavano ancora a occidente. Parcheggiai la macchina sulla strada e, una volta che il motore smise di pulsare, non si sentì altro suono che un lieve brusio di uccelli e il fruscio degli aghi di pino.
Benché sapessi che era abitata, sulle prime pensai che la casa fosse deserta, perché il vasto giardino che la circondava era sprofondato in una trascuratezza vecchia di anni. Chiunque avesse creato il giardino doveva avere amato le rose, ma ormai quei fiori avevano addirittura invaso le aiuole e formavano fitte siepi impenetrabili che emanavano un bombardamento di profumo così opprimente da farmi ben presto girare la testa. Inoltre, da chioschetti che quasi sprofondavano sotto il loro peso, le rose protendevano rami fioriti irti di spine; s'innalzavano in grovigli di steli robusti che avevano ormai le dimensioni di giovani querce; e attorcigliavano i loro viticci rampicanti lungo i rami spogli di tassi, di sorbi ornamentali, di ciliegi e di meli già semisoffocati dal vischio, cosicché l'estate, che tanto aveva giovato ai fiori, sembrava aver cospirato con il giardiniere per produrre una giungla orgiastica di tutte le varietà di rose, e anche se non riuscivo a distinguere nessuna delle forme o dei colori peculiari, i profumi individuali si fondevano tutti in una sola essenza, intollerabilmente dolce, che mi faceva dolere e fremere ogni nervo del corpo.
Le rose si erano arrampicate sulle mura già ricoperte di edera lussureggiante e si annidavano a gruppi sui tetti dove erbacce in fiore avevano messo radici negli interstizi fra le tegole coperte di muschio, mentre un grande olmo non potato con la chioma infestata di cornacchie svettava sulla casa quasi fosse sul punto di posarvi sopra le sue enormi braccia, di sfondarla, mentre le radici stritolavano le fondamenta sotterranee in un abbraccio feroce. Il giardino aveva rivendicato la casa e la stava distruggendo con il suo rigoglio arboreo. Gli occupanti dell'edificio erano già alla mercé dei capricci della natura.
Enormi viluppi di artemisia avevano divelto il cancello e sbarrato del tutto il vialetto, per cui dovetti scalare il muro diroccato, facendo crollare così qualche altra pietra. Guardando verso la sagoma della casa abbandonata, vidi al pianterreno un tremolio verdastro di luce filtrare dalle foglie che oscuravano le finestre e lo presi come indizio per uscire dall'ostile labirinto vegetale che, mentre avanzavo, mi sferzò, mi bastonò, mi punse e mi lasciò nauseato, sanguinante e in preda alle vertigini per gli eccessi odorosi. Man mano che mi avvicinavo alla casa cominciai a udire, al di sopra del martellare del sangue nelle mie orecchie, note di musica che facevano plop, come pesci rossi in uno stagno tranquillo. Senza fiato, mi fermai un attimo per scoprire se il suono era reale. Il motivo proseguì malinconico. Qualcuno, dentro quella casa in rovina, stava suonando Debussy al pianoforte.
Finalmente raggiunsi la finestra illuminata e scostando il fogliame che la schermava spiai dentro. Vidi un salotto con il pavimento ricoperto di lisi tappeti persiani e le pareti tappezzate di carta damascata, un tempo color cremisi, che ormai era sbiadita e istoriata dall'umidità e dalla muffa, increspata e sollevata in più punti dal muro fradicio sottostante. C'era un caminetto di alabastro con un bouquet di fiori di conchiglie sotto una campana di vetro appannato e un ventaglio di carta argentata sulla grata. Dipinti a olio con uno strato di vernice protettiva tanto pesante che i soggetti non si distinguevano erano appesi qua e là di traverso entro pompose cornici di legno dorato ormai tarlate, e al centro del soffitto un lampadario di cristallo, spento, scintillava ai riflessi di due candele infilate in un candeliere, che era posato sul pianoforte a coda e gettava una luce fioca sulla ragazza che suonava.
Mi voltava le spalle, ma allungando il collo riuscivo a scorgere sulla tastiera le dita bianche, sottili, nervose, e intravedevo la curva pallida della guancia. I capelli, del castano spento di una foresta invernale, erano sciolti sulle spalle del vestito nero. Suonava con sensibilità straordinaria. La stanza era colma di una struggente, nostalgica angoscia che sembrava emanare da quella figura sottile di cui non vedevo il volto.
Mi sembrò meglio non disturbarla e girai sul retro della casa, dove trovai un gatto nero che si leccava sopra un secchio rovesciato e, oltre una porta aperta, una vecchia grassa seduta in cucina al buio: per risparmiare, mi disse, l'elettricità; ed era quello il motivo per cui faceva suonare la padrona di casa a lume di candela. La governante intuì chi dovevo essere dalla sagoma indistinta nell'ombra. Mi salutò calorosamente e accese le luci in mio onore rivelando una cucina fortunatamente banale con un fornello a gas, un frigorifero e un piattino di latte pronto per il micio. Mi fece accomodare al tavolo appena lustrato, mi mise davanti una tazza di tè e un piatto di biscotti di pasta frolla, s'informò sul viaggio e si augurò, con esagerata sollecitudine, che trovassi adeguata la sistemazione.
«Anche se... come potremmo accogliervi nel lusso, signore, voglio dire... date le circostanze...»
Aveva un modo di fare untuoso, accattivante, che era inteso a disarmare, ma chissà perché mi urtava, e si lanciò a vele spiegate in un fiume sonoro di vacuità, mentre la ragazza in salotto continuava a suonare il piano con sensibilità squisita e la musica echeggiava lungo un corridoio fino alla cucina. La vecchia parlò del sindaco scomparso senza mostrare imbarazzo né fare congetture. A quanto pareva, la governante aveva assorbito così bene il fatto che se n'era andato che, se un giorno l'avesse visto di ritorno, si sarebbe sentita vagamente offesa. Lasciò intendere che sospettava che potesse esserci sotto un'amante, perché disse: «Non sono molte le donne che vorrebbero Mary Anne come figliastra. Oh, no! Oh, no!» Fece roteare gli occhi con aria significativa e seguitò a ciarlare sulla difficoltà di procurarsi riviste femminili e lana da lavorare a maglia. Poco dopo la musica cessò e Mary Anne si presentò in cucina, con qualche incombenza che dimenticò non appena mi vide, giacché la governante non si era premurata di dirle che un ospite inatteso sarebbe arrivato in casa. Si fermò sulla soglia, paralizzata dalla sorpresa e dall'apprensione; sul viso soltanto gli occhi del colore di un giorno di pioggia si muovevano qua e là, come in cerca di una via di fuga.
Aveva la delicatezza cerea di una pianta cresciuta in un ripostiglio. Non dava l'impressione che nelle sue vene scorresse il sangue, ma qualche altro fluido meno enfatico, infinitamente meno rosso. La sua bocca era ravvivata appena da un rosa pallidissimo, benché avesse esattamente le proporzioni delle tre ciliegie che gli insegnanti d'arte dispongono a triangolo rovesciato per illustrare la forma classica della bocca, e sulle guance non c'era la minima traccia di rosa. Ora che stava in piedi, era quasi nascosta dal vestito e il viso minuscolo, a forma di medaglione, sembrava ancora più piccolo a causa della massa disordinata di capelli che ricadevano lisci come se fosse stata appena ripescata dal fiume. Mi accorsi che aveva la chioma e l'abito cosparsi di ramoscelli e petali del giardino. Sembrava Ofelia affogata; lo pensai subito, anche se non potevo sapere che sarebbe davvero affogata così presto, perché era sperduta e disperata. E una passività raggelante e soffocata rendeva la sua disperazione ancor più patetica. La governante fece schioccare la lingua nello scorgere i piedi nudi della ragazza spettrale.
«Metta subito le pantofole, signorina! A piedi nudi su quelle lastre di pietra! Io non l'ho mai fatto! Si prenderà un malanno!»
Mary Anne spostò goffamente il peso da un piede all'altro, quasi che le probabilità di prendersi un malanno dal pavimento di pietra della cucina fossero dimezzate entrando in contatto con un solo piede alla volta. Era sui diciassette anni. Il suo sguardo distante vagò a caso sul tavolo; poi mormorò in tono di supplica:
«Forse un po' di tè...»
«No, se non mette i piedi sullo stuoino» ribatté la governante, forse in tono troppo autoritario date le circostanze.
La ragazza entrò furtiva nella stanza fino a trovarsi sulla striscia vivace di tappeto, lasciando che gli occhi le si posassero ancora su di me mentre la governante le portava una tazza e perfino un biscotto, pur continuando a borbottare fra sé.
«Sono Mary Anne, la figlia del sindaco. Lei chi è?»
«Sono un funzionario dello stato e mi chiamo Desiderio.»
Lei ripeté il nome sottovoce, ma con un curioso fremito nella voce che sarebbe potuto essere di piacere, e alla fine azzardò: «Desiderio, il desiderato, lo sa che ha gli occhi proprio da indiano?»
La governante fece un verso di disapprovazione, perché noi bianchi non avremmo dovuto riconoscere l'esistenza degli indiani.
«Mia madre lo ha sempre trovato imbarazzante» risposi, e a quelle parole la ragazza parve oscuramente compiaciuta e porse la mano in un gesto così improvviso e inatteso di buona volontà che sembrava più un tentativo di colpire che un'offerta di stringerla. Ma le presi la mano e scoprii che era di ghiaccio. Lei trattenne a lungo la mia.
«Il signor Desiderio si fermerà per un po' nella stanza degli ospiti» annunciò la governante a malincuore, quasi fosse restia a dividere l'informazione con la padrona. «Viene da parte del governo.»
Mary Anne trovò tutto questo molto misterioso; i suoi occhi si dilatarono.
«Non troverà mio padre, sa» m'informò.
«Perché no?» domandai. Avevo ancora le dita serrate nella trappola di neve della sua stretta.
«Se non è tornato in tempo per potare le rose, non tornerà più» disse, e fu scossa da una risata silenziosa così violenta che il tè traboccò dalla tazza sul vestito, già macchiato da ogni sorta di cibi e bevande versate.
«Che cosa pensa che gli sia accaduto, Mary Anne?» le chiesi con gentilezza perché, anche se sapevo dai dati e dalla mia stessa intuizione che era del tutto reale, non avevo mai conosciuto prima di allora una donna che paresse avere familiarità con le ombre come lei.
«Si è disintegrato, naturalmente» rispose. «Si è dissolto nei suoi elementi essenziali... una provetta di amminoacidi, un ciuffo o due di capelli.»
Accennò con la tazza che voleva dell'altro tè. Non mi aveva dato la risposta che avrei potuto aspettarmi e, quando tentai di interrogarla ancora, si limitò a ridacchiare e scosse la testa con tanto vigore che un ramoscello di foglie di melo cadde sul pavimento e i capelli le spiovvero sugli occhi. Poi posò la tazza sul tavolo con la precauzione eccessiva della persona goffa per natura e corse di nuovo via nel corridoio buio. Doveva aver lasciato aperta la porta del salotto, perché il piano risuonò più forte, e doveva aver cambiato musica, per qualche ragione irrazionale; ora suonava le lucide bizzarrie di Erik Satie. Con un sospiro, la governante raccolse le tazze.
«Una svitata» commentò. «Le manca una rotella.»
Poco dopo mi mostrò un letto con la trapunta a patchwork in una stanza semplice ma accogliente, sul retro della casa. Era una notte dolce, calda, e la ragazza al piano ricamò un traforo di pizzo musicale sulla superficie del mio primo sonno. Credo di essermi svegliato perché la musica si era interrotta. Forse le candele si erano consumate.
Ora la luna si era levata del tutto e splendeva proprio nella stanza attraverso lo schermo di edera e di rose, cosicché ombre puntiformi cadevano con scrupolosa nitidezza sul letto, sulle pareti e sul pavimento. L'interno sembrava la negativa di una fotografia dell'esterno e la luna aveva già scattato una foto in bianco e nero del giardino. Mi svegliai di colpo e del tutto, senza il minimo residuo di sonno nella mente, come se quello fosse il momento giusto per svegliarmi, anche se doveva essere appena passata la mezzanotte. Ero troppo sveglio per restare a letto e mi alzai irrequieto per guardare dalla finestra. Il parco era molto più esteso di quanto non avessi creduto all'inizio e il terreno dietro la casa era ancor più inselvatichito di quello da cui ero passato. La luna splendeva così intensa che non c'era un solo angolo in ombra, e potei scorgere il letto asciutto di un grande stagno, o laghetto, che adesso era un ovale di ninfee dai petali piatti, mentre le rose avevano completamente sommerso nel loro abbraccio un'ondina di marmo distesa sul fianco in un toccante atteggiamento di grazia provinciale. Disegnata con la precisione di una xilografia dal chiaro di luna, una famiglia di giovani volpi si rotolava e faceva le capriole su una radura che un tempo era stata un prato. Non c'era vento. La notte sospirava sotto il peso languido del suo stesso romanticismo.
Non credo che lei avesse fatto rumore, ma tutt'a un tratto percepii una presenza nella stanza e un sudore freddo mi solleticò la nuca. Lentamente, voltai le spalle alla finestra. Lei viveva sulla soglia crepuscolare della vita e così la ricordo sempre: in piedi, esitante sulla porta come un'ospite non invitata e incerta sull'accoglienza che riceverà. Gli occhi erano aperti, ma senza vedere, e teneva una rosa fra le dita tese. Si era tolta il semplice vestito nero e indossava una camicia di mussola bianca come quelle che portano le educande in convento. Mentre andavo verso di lei, mi venne incontro, e presi la rosa poiché sembrava offrirmela. Una spina sotto le foglie mi punse il pollice e sentii la rosa rossa pulsare come un cuore e le vidi emettere una goccia di sangue, come se un penitente avesse preso su di sé il dolore della mia ferita. Lei mi mise al collo le braccia inconsistenti e posò la bocca sulla mia. Il suo bacio fu come una sorsata d'acqua gelida, eppure eccitò subito il mio desiderio perché era pieno di una brama angosciosa.
La guidai verso il letto e, nella penombra variegata, penetrai la sua carne sospirante, che era gelida come quella di una sirena o dell'ondina di marmo del giardino. Mi resi conto di una reazione curiosamente attenuata da parte sua, come se avvertisse le carezze attraverso un velo, ma per tutto il tempo sapevo benissimo che era addormentata perché, a parte l'evidenza dei sensi, ricordavo che il proprietario del peep-show aveva parlato di una bella sonnambula. Tuttavia, se dormiva, sognava la passione e subito dopo mi addormentai senza sognare, perché avevo vissuto un sogno nella realtà. Quando al mattino mi svegliai come al solito, di lei nel letto non restavano altro che alcune foglie morte e non c'era traccia del fatto che era stata nella stanza, se non una rosa avvizzita al centro del pavimento.
Mary Anne non si presentò a colazione, anche se la governante mi rimpinzò con tanta generosità di uova, bacon, salsicce, frittelle, caffè e frutta da farmi intuire che per chissà quali motivi era soddisfatta dell'ospite. Alla luce radiosa del mattino il viso grassoccio e lugubre della vecchia appariva indefinibilmente sinistro, perfino maligno. Mi sollecitò a tornare a casa del sindaco per la cena e alla fine, per accontentarla, accettai e indicai le sette di sera come probabile ora del mio ritorno, benché non sapessi se in quel momento sarei stato ancora in città. Quando andai in camera a prendere la borsa, passai davanti a una porta aperta e, lanciando un'occhiata dentro, vidi la mia visitatrice notturna seduta di fronte allo specchio di una toeletta in una stanza disordinata piena di spartiti. Portava ancora quell'austera camicia da notte mentre dava ai suoi capelli arruffati l'unica (probabilmente) spazzolata del giorno.
«Mary Anne?»
Mi sorrise allo specchio con aria remota e capii che era sveglia.
«Buon giorno, Desiderio» rispose. «Spero che abbia fatto una buona nottata di sonno.»
Rimasi sconcertato.
«Sì» balbettai. «Oh, sì.»
«Anche se ogni tanto la gente ha paura degli usignoli, perché fanno molto chiasso, a volte.»
«Mary Anne, ha sognato, stanotte?»
Il pettine incontrò un nodo e lei lo tirò, spazientita.
«Ho sognato un suicidio per amore» rispose. «Ma del resto lo faccio sempre. Non crede che sarebbe bellissimo morire per amore?»
È sempre inquietante parlare con una persona allo specchio. Inoltre, lo specchio era di contrabbando. La sua voce era alta e limpida e, anche se parlava sempre piano, era dolcemente penetrante, come la vista della luna d'inverno.
«Non sono affatto sicuro che sia bello morire per qualcosa» risposi.